Dove vuole andare a parare Il regno del pianeta delle scimmie

11 giorni ago

Non occorre aver seguito (o anche solo ricordare) la passata trilogia di Il pianeta delle scimmie per seguire questo nuovo film che annuncia una possibile nuova serie, almeno se gli incassi lo permetteranno. Ci sono personaggi diversi, dinamiche diverse e un tempo diverso. Siamo 300 anni nel futuro, Cesare, il protagonista di quei tre film precedenti, è un grande anziano, una specie di icona della liberazione delle scimmie, un nome rievocato le cui parole sono fraintese o comprese a seconda di come la si pensi. Non è una religione ma poco ci manca. Lo scenario invece è ormai definitivamente selvaggio: i vecchi grattacieli pieni di piante sono per le scimmie come alti alberi, la scienza è dimenticata, gli osservatori sono conquistati dai rampicanti e la vita sembra svolgersi come in un’era primitiva.

Il regno del pianeta delle scimmie - Figure 1
Foto esquire.com

La trama mette un nuovo protagonista (la scimmia Noa) nella posizione di dover salvare il suo popolo, attaccato da una tribù ostile di scimmie, che ha come leader Proximus, primate con la fissazione dell’antica Roma e un progetto temuto anche dagli umani. Ci sono infatti anche gli esseri umani, sono sopravvissuti a questi 300 anni (ma gli si sono strappati tutti i jeans aderenti). E per chi ha confidenza con il film originale, quello del 1968 con Charlton Heston, la sensazione è che in qualche maniera la saga si stia avvicinando allo scenario di quella storia, dimenticando sempre di più cosa avessero fatto gli umani prima, usando i loro artefatti come reliquie e schiavizzandone una parte ridotta a selvaggi.

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Intanto questo film è il più fiacco e spento di tutta la nuova serie partita nel 2011. Non impressiona il nuovo protagonista, non conquista la nuova trama e soprattutto annoia molto il dialogo (e il doppiaggese dell’adattamento italiano sicuramente non lo aiuta). Lo svolgersi delle scene e l’esporre la trama passa di convenzione in convenzione, di frase fatta in frase fatta ma anche attraverso una serie di atteggiamenti convenzionali che fanno apparire le scimmie come teenager americani (un problema già di Avatar), con le loro mossette, le loro espressioni e i loro conflitti. È la banalizzazione di una serie che specialmente con Matt Reeves aveva invece lottato per avere una personalità.

Il regno del pianeta delle scimmie - Figure 2
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Ora c’è Wes Ball (autore della terribile trilogia Maze Runner) alla regia, mentre alla sceneggiatura c’è Josh Friedkin, anche sceneggiatore dei nuovi Avatar. Tutto cambia e riduce il tasso di impegno, andando dove possibile a parare sul già visto e già raccontato, sul ripasso dei soliti film d’azione. Molto più interessante è allora capire come questo film commercialissimo, nel cercare di intercettare il pubblico più vasto possibile, rappresenti (volontariamente o no) le tensioni americane. La più evidente è la paura della sostituzione etnica, grande teoria del complotto diffusa ovunque, che il film rappresenta nel momento in cui entrano in ballo gli umani: scacciati dalla cima della catena alimentare dalle scimmie, le quali hanno preso le loro città, li hanno ridotti in schiavitù e vogliono la loro tecnologia per soppiantarli definitivamente. Prima gli umani erano sempre i cattivi, ora sono una fazione come le altre, hanno le loro ragioni e desiderano riprendersi il pianeta su cui prima dominavano.

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Il regno del pianeta delle scimmie - Figure 3
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Tuttavia anche il mondo delle scimmie è animato da conflitti politici. Passati 300 anni ci sono le scimmie di destra e scimmie di sinistra. Le prime sono le cattive, guerrafondaie, che credono in una struttura verticale, che non tutte le scimmie siano uguali ma che alcune vadano sottomesse per il benessere delle altre. Le seconde sono quelle buone, credono che tutte le scimmie siano uguali, che unite siano più forti e che occorra lavorare per la pace, si scontrano sull’ideologia da tenere e si fanno la concorrenza sul terreno di chi ha la schiena più dritta. Non che questo renda Il regno del pianeta delle scimmie sia un film politico, evita con grande cura di diventarlo e lascia queste suggestioni in secondo se non terzo piano. Ma del resto questo è un film che evita di compromettersi su qualunque terreno. Anche i sentimenti sembrano banditi dal film, epurato di tutto se non di un vago amore familiare e insofferenza per i soprusi, buono per chiunque, eccezionale per nessuno, più che altro generico.

Gabriele Niola

Nasce a Roma nel 1981, fatica a vivere fino a che non inizia a fare il critico nell'epoca d'oro dei blog. Inizia a lavorare pagato sul finire degli anni '00 e alterna critica a giornalismo da freelance per diverse testate. Dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della sezione Extra della Festa del cinema di Roma, poi programmatore e per un anno anche co-direttore del Festival di Taormina. Dal 2015 è corrispondente dall'Italia per la testata britannica Screen International.  È docente del master di critica giornalistica dell'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico, ha pubblicato con UTET un libro intervista a Gabriele Muccino intitolato La vita addosso e con Bietti un pamphlet dal titolo "Odio il cinema italiano". Vanta innumerevoli minacce da alcuni dei più titolati registi italiani.      Linkedin:https://it.linkedin.com/in/gniola/it   Letterboxd: https://letterboxd.com/gniola/ 

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