4 ottobre, San Francesco. Quando il Santo di Assisi venne a ...
Si celebra oggi, venerdì 4 ottobre, la festività di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. Ricorrenza che cade in un momento storico particolare; infatti in questo anno 2024 ricorre l’ottavo Centenario delle Stimmate di San Francesco. Le antiche biografie raccontano che il Poverello di Assisi, nell’estate del 1224, in un momento di crisi umana e spirituale si ritirò sul Monte della Verna, nel Casentino. L’esperienza delle Stimmate, esperienza di dolore e amore, è diventata per Francesco dono da custodire con responsabilità e umiltà, ma anche l’inizio di un “canto di lode” compiuto nella sua vita e raccontato nei celebri componimenti letterari delle Lodi di Dio Altissimo e del Cantico delle Creature.
Si dice che San Francesco passò da Cremona intorno all’anno 1220 e, a ridosso dello stesso anno, sembra fu in città anche San Domenico di Guzman. Pare, stando sempre alle cronache dell’epoca, che San Francesco sia stato ospitato al Borgo di S.Guglielmo tra i tintori. Ipotesi certamente probabile ma è anche lecito supporre che il Poverello sia giunto a Cremona qualche anno prima visto che nel 1215 fu nella vicina Fidenza, allora Borgo San Donnino, dove operò il prodigio della moltiplicazione dei pani. In quella occasione fece visita alla comunità dei Frati Minori che vivevano laddove oggi sorge quell’oasi di pace che è l’oratorio della Zappella. Non avevano un vero e proprio convento. Si accontentavano di stare in povere e misere capanne, di cui oggi non resta traccia, e di una modesta chiesetta in cui svolgere il loro ufficio conducendo così una vita all’insegna della vera e propria povertà evangelica, secondo la Regola francescana.
Alla vicenda legata al Poverello di Assisi in terra emiliana è dedicato anche un libro, dal titolo “San Francesco d’Assisi a Borgo San Donnino”, curato dal fidentino don Rino Germani, sacerdote salesiano, per la collana “Quaderni Fidentini”. Proprio secondo padre Germani, San Francesco si recò probabilmente a Fidenza in segno di apprezzamento verso le condizioni in cui vivevano i frati dell’ordine da lui fondato. Nel suo volume, il salesiano, riporta fedelmente (tradotta dal latino), la cronaca del fatto miracoloso, tratta dagli “Annali” di Luca Wodding, uno dei maggiori cronisti francescani dell’epoca. Ecco quello che vi si legge: “Anno 1215. In Borgo San Donnino, celebre castello lungo la via Emilia, detto anche dei Pallavicino…San Francesco dovette operare un nuovo miracolo a favore dei suoi Frati. Il Santo giungeva alla dimora dei Frati di Borgo dopo un lungo viaggio (proveniva dalla Spagna, ndr) accompagnato da vari confratelli ed aspettato da molti altri Frati ed amici, che si erano radunati a Borgo prima per aspettarlo e poi per andargli incontro, salutarlo e congratularsi con lui del desiderato ritorno in Italia. Forse era sera tardi, la dimora dei Frati era fuori le mira di Borgo. Fu allora che l’uomo di Dio disse al Frate cuciniere di andare a vedere dentro il cesto dove si era soliti mettere il pane. Il frate andò a vedere, pur pensando di andarci inutilmente. Fu grande però la sua sorpresa quando, invece, trovò pieno zeppo di pane fresco quel cesto, che più di una volta aveva già fatto vedere a tutti completamente vuoto! I Frati riconobbero il prodigio operato per merito della virtù del loro Padre e si misero a mangiare con riconoscenza e con allegrezza quel pane ‘mandato dal cielo’; non cessavano di ringraziare Dio che aveva dato agli uomini il potere di fare miracoli”. Dell’accaduto parlano anche diversi altri storici e cronisti dell’epoca. Fra questi, Bartolomeo Albizzi, Frate minore francescano, nella sua opera “Liber Conformitatum”: un manoscritto risalente al 1385. Alla Pinacoteca Nazionale Brera di Milano si trova, ancora oggi, una stampa del 1510, del brano dell’Albizzi e nella parte iniziale vi si legge “Locum Burgi sancti Donini: in quo beatus Franciscus fecit miraculu de pani bus” (il luogo di Borgo San Donnino in cui il beato Francesco fece il miracolo dei pani). Quello effettuato a due passi dalla via Emilia è un prodigio che richiama, in modo molto chiaro, al celebre miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci operato da Gesù impietositosi di fronte alla folla che lo seguiva da giorni senza mangiare. Un atto d’amore di Cristo, ripetuto, con lo stesso gesto, dal Poverello di Assisi in terra fidentina nei confronti dei suoi frati che non erano in grado di offrire, a lui e ai suoi confratelli, qualcosa da mangiare. E non è certo, quello accaduto, l’unico fatto a dimostrare un legame particolare tra il santo di Assisi e Gesù Cristo. Addirittura un pontefice, Pio XI, nella sua enciclica “Rite expiatis” del 30 aprile 1926 scrive “sembra…non esservi stato mai alcuno in cui brillasse più viva e più somigliante l’immagine di Gesù Cristo e la forma evangelica di vita che in Francesco. Pertanto agli, che era chiamato l’Araldo del Gran Re, giustamente fu salutato quale un altro Gesù Cristo per essersi presentato ai contemporanei e ai secoli futuri quasi Cristo redivivo, dal che seguì che, come tale, egli vive tuttora agli occhi degli uomini e continuerà a vivere per tutte le generazioni avvenire”.
Da notare che dopo la morte di colui che è poi divenuto il Patrono d’Italia, la gente di Borgo San Donnino fece raffigurare la sua immagine nel catino absidale del Duomo, all’interno del grande dipinto del Giudizio Universale, riscoperto in seguito ai restauri del 1950. Un tempo vi era anche un quadro, alla Zappella, che ricordava quanto accaduto: ma andò distrutto, insieme a larga parte del sacro edificio, dopo il bombardamento su Fidenza del 1944. Si salvò, seppur danneggiata (e poi rimaneggiata) la statua lignea Ottocentesca del Santo rappresentato in preghiera, mentre chiede l’aiuto dal Cielo per i suoi frati. Di spicco invece la lunetta marmorea, che impreziosisce l’ingresso dl piccolo tempio, in cui si nota chiaramente San Francesco mentre riceve simbolicamente il pane da un angelo. Alla base, la scritta: “Qui San Francesco d’Assisi nel 1215 ricevette il pane dal cielo”. Da allora, l’amore di Fidenza per il Poverello non si è mai spento, così come non si è mai spenta la eco di questo fatto, narrato dalla storia, accaduto nel luogo della prima presenza francescana sul territorio borghigiano. Luogo che successivamente fu retto dai Frati della Penitenza, detti della Zappella. E’ quindi lecito supporre, vista anche la vicinanza, che il passaggio di San Francesco a Cremona, di ritorno da un viaggio in Spagna, possa essere avvenuto nel 1215. Quel che è certo è che il “germoglio” florido e vigoroso del francescanesimo, nelle terre del Po e nel cremonese ha prodotto frutti abbondanti. Innanzitutto per chi intende conoscere meglio la storia è bene cercare di avere tra le mani il volume di Anacleto Mosconi “I conventi francescani del territorio cremonese” ( Zanetti), 1981. Ci sono poi una serie di figure francescane passate alla storia, a dimostrazione di quanto il profumo del carisma francescano si sia esteso anche nei nostri territori. Tra le figure da citare c’è certamente il beato Benedetto da Cremona la cui festa ricorre il 24 giugno, giorno della sua nascita al Cielo avvenuta nell’anno 1537. Originario di Cremona, Benedetto entrò giovanissimo tra i frati minori della stessa Cremona. Di lui, della sua fede e della sua carità, si diceva che tenesse gli occhi costantemente rivolti al cielo, tanto quanto verso la terra. Molti miracoli gli furono attribuiti sia in vita che in morte. Morì nel convento di S. Bernardino d’Agnone (Foggia), il 24 giugno 1537. Altra figura eminente è quella di padre Cristoforo da Cremona al quale, lo scorso anno, è stato dedicato il libro “Padre Cristoforo da Cremona ‘Verrà un giorno’ “ del giornalista cremonese Mauro Faverzani. Un volume dedicato a questo sacerdote cappuccino, appartenente alla famiglia Picenardi, presentato da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”. Nel “Fermo e Lucia”, giusto ricordarlo, è proprio specificata la città di Cremona quale origine di quello che non è solo il personaggio del celeberrimo romanzo, ma è anche una figura storica assolutamente rilevante. Infatti Lodovico Picenardi (che da religioso francescano assunse poi il nome di Cristoforo), nato nel 1568 e morto di peste nel 1630, dopo il celebre duello avvenuto nella piazzetta del Filodrammatici e aver trovato rifugio nell’allora convento francescano di via Mantova, si convertì entrando nell’ordine dei Frati Minori Cappuccini. Edito da Velar, il libro di Faverzani passa in rassegna tutte le fonti storiche sul religioso cremonese, dalle sue origini sino alla morte ed è impreziosito dalle riproduzioni di stampe d’epoca e fotografie dei luoghi legati alla vita di padre Cristoforo.
Da non dimenticare poi la figura di Bartolomeo da Cremona e qui si rimandano i lettori all’articolo su Cremonasera.it dal titolo “il viaggio in Asia e quella fontana in mezzo alla piazza da cui sgorgavano latte, vino e idromele” che si può leggere qui https://cremonasera.it/cronaca/bartolomeo-da-cremona-il-viaggio-in-asia-e-quella-fontana-in-mezzo-alla-piazza-da-cui-sgorgavano-latte-vino-e-idromele.
Dal 2018 è venerabile Cecilio Maria da Costa Serina (Antonio Pietro Cortinovis) Religioso cappuccino, Fondatore dell’Opera San Francesco per i Poveri di Milano. Il Servo di Dio nacque a Nespello, frazione di Costa Serina (Bergamo) il 7 novembre 1885 da Lorenzo e Angela Gherardi, settimo di nove figli, e venne battezzato il giorno dopo con i nomi di Pietro Antonio. Ancora adolescente già lavorava nei campi e nei pascoli contribuendo al sostentamento della famiglia.Il 7 aprile 1896 ricevette la Prima Comunione e, pochi anni dopo, seguendo l’esempio della mamma chiese di essere accolto nel Terz’Ordine Francescano. Nel duro lavoro nei boschi, nei prati e col bestiame trascorse i suoi primi 22 anni, coltivando nel cuore quella chiamata che sentiva sempre più forte a consacrarsi a Dio. Consigliato dal parroco, scelse la vita cappuccina e il 21 aprile 1908 raggiunse il convento di Lovere, sede del noviziato. Qui il 29 luglio 1908 vestì l’abito dei Frati Minori Cappuccini e gli fu dato il nome di fra Cecilio Maria. Il 2 agosto 1909 emise la professione religiosa e il giorno dopo lasciò il convento di Lovere per il convento di Albino, dove l’obbedienza lo chiamava agli uffici di sacrista, refettoriere, aiuto portinaio e infermiere. Cinque mesi dopo fu trasferito al convento di Cremona con gli stessi uffici ma all’ombra del Torrazzo rimase solamente tre mesi perché chiamato, il 29 aprile 1910, al convento di Milano-Monforte, sede del Ministro Provinciale. Qui vi resterà fino al 19 ottobre 1982, quando fu trasferito a Bergamo nell’Infermeria dei frati cappuccini. Il suo primo compito nel convento di Milano-Monforte fu quello di responsabile dei luoghi comuni (comunitiere), infermiere e aiuto sacrestano. Nell’aprile del 1914 contrasse la meningite e si temette per la sua guarigione. È in questa occasione che ebbe un’esperienza spirituale profonda che gli fece sperimentare il giudizio benevolo di Dio nel momento dell’incontro finale, e sarà questo, un ricordo vivissimo e ripetuto nel suo Diario. La sua guarigione, come lui stesso ci attesta fu dovuta all’intercessione dell’allora Servo di Dio, oggi Beato, Innocenzo da Berzo, frate cappuccino del quale era in corso la Causa di beatificazione. Scoppiata la Prima Guerra Mondiale, nel 1916 fu chiamato alle armi. A causa della salute malferma, pochi mesi dopo, fu rimandato a Milano dove, il 2 febbraio 1918, emise la professione solenne. Con la guerra crebbero i poveri e la porta del convento era un loro punto di ritrovo. Egli suppliva spesso e volentieri il portinaio incontrando i poveri ai quali non sapeva dire di no. Nel 1921 fu nominato portinaio a tutti gli effetti, ufficio che svolse fino al 1970. In questo delicato servizio conobbe Marcello Candia, l’industriale milanese che lasciato tutto si trasferì in Brasile per servire i lebbrosi. Con semplicità affermava di aver imparato a servire i poveri alla scuola di fra Cecilio Maria. Nel 1925 dopo aver saputo della morte del Venerabile Daniele da Samarate, sacerdote cappuccino missionario in Brasile, lebbroso e apostolo dei lebbrosi tra i lebbrosi, fra Cecilio Maria chiese ai superiori di partire missionario per prendersi cura delle persone ammalate di lebbra, ma non fu mai esaudito. Rimase così a Milano, portinaio e questuante per i poveri del convento. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale fra Cecilio Maria pur sotto le bombe, alcune colpirono anche il convento di Milano-Monforte, non si mosse mai dalla portineria rispondendo così alle necessità delle tante persone che avevano bisogno di tutto, dei due monasteri di claustrali che dipendevano per vivere dalla sua questua. Molte volte depistò le ricerche delle SS che dopo l’arresto e la deportazione in un campo di concentramento (13 giugno 1944) del confratello padre Giannantonio Agosti da Romallo, confessore in Duomo, accusato di distribuire passaporti agli ebrei, sorvegliavano con maggiore rigore il convento. Finita la guerra i poveri che facevano la fila alla porta del convento erano ancora molto lunga. Fra Cecilio Maria avrebbe voluto un luogo accogliente per questi uomini e donne che vedeva aspettare sotto la pioggia o al gelo o sotto il sole in una interminabile fila. La sua preghiera venne esaudita nel 1959, quando il dottor Emilio Grignani si offrì di edificare un ambiente accogliente nell’ultimo pezzo di terreno rimasto al convento. Il 20 dicembre 1959 la casa, con tutti i servizi e 150 posti a sedere, sarà chiamata l’Opera di S. Francesco, venne inaugurata solennemente dal Cardinale Giovanni Battista Montini, il futuro beato Paolo VI. Fra Cecilio Maria si profuse a servizio dei poveri fino al 1979, quando la sua salute cominciò a declinare. Il 19 ottobre 1982, aggravandosi le sue condizioni fu ricoverato a Bergamo nell’infermeria dei frati cappuccini. Anche qui, per quando gli era possibile, continuò ad accogliere le persone che da lui cercavano una parola di conforto. Fra Cecilio Maria moriva serenamente il 10 aprile 1984. Dopo i solenni funerali, celebrati nella chiesa del convento di Milano-Monforte, fu sepolto nel cimitero maggiore di Milano. Dal 31 gennaio 1989 riposa nella chiesa di Milano-Monforte, accanto alla sua Opera. Il 6 marzo 2018 il Santo Padre Francesco ha ricevuto il Prefetto della Congregazione dei Santi, cardinale Angelo Amato, autorizzandolo a promulgare il Decreto super virtutibus del Servo di Dio Cecilio Maria Cortinovis da Costa Serina, Fondatore dell’Opera San Francesco per i Poveri in Milano. Spostandosi da Cremona a Casalmaggiore, figura significativa è quella di padre Giuseppe Antonio Marcheselli (1676-1742), frate minore conventuale e cofondatore del "Conservatorio del Giglio" di Assisi. Dall'originaria Casalmaggiore (Cremona) giunse nel 1701 ad Assisi radicandosi nella città umbra dove operò fino alla sua morte, eccetto una breve assenza trascorsa a Roma come guardiano della comunità dei SS. Apostoli. Figura di predicatore e di scrittore soprattutto di operette catechetiche e pastorali che furono ripubblicate fino ad inoltrato Ottocento, la sua memoria storica si lega particolarmente al ruolo di cofondatore, assieme alla vicentina Angela del Giglio (1658-1736), di una "casa pia" evolutasi nel tempo quale conservatorio, poi come monastero fino all'attuale Istituto delle Suore Francescane Missionarie di Assisi. Stando sempre nelle terre del Po e “guardando” alla riva opposta, quella emiliana, da citare certamente il venerabile Servo di Dio Lorenzo da Zibello, cappuccino. Al secolo Giovanni Gambara, nacque a Zibello il 14 ottobre 1695 e, in lui, la vocazione religiosa fiorì fin dalla più tenera età. Tra gli episodi salienti quello riguardante una cugina che, nel fiore degli anni, volse le spalle al mondo per rinchiudersi nel convento di Santa Chiara in Busseto. In quel momento riuscì a intravedere la chiamata di Dio e il 15 agosto 1716, solennità dell’Assunta, a soli 21 anni vestì l’abito dei novizi nel monastero di Carpi, assumendo il nome di Lorenzo. Già allora uno dei suoi maestri, padre Bernardino da Parma, scrisse di aver notato nell’allievo singolari doti di pietà, ubbidienza e mortificazione additandolo anche ad esempio non solo per gli altri novizi ma anche per i religiosi provetti. Dopo un anno fu ammesso alla professione solenne e da allora si attenne scrupolosamente a un cammino improntato alla semplicità evangelica, alla preghiera, alla penitenza in totale dedizione a Dio. Dopo Carpi, fu il convento di Monticelli d’Ongina la sua destinazione dove ebbe mansioni di sagrista e dove proseguì gli studi delle scienze teologiche e filosofiche. A Monticelli d’Ongina restò tre anni ricevendo gli ordini minori, mentre in cattedrale a Fidenza fu ordinato suddiacono prima e diacono poi. Il 13 marzo 1723, a Busseto, venne ordinato sacerdote dal vescovo monsignor Gherardo Zandemaria e, da novello sacerdote, fu inviato a Guastalla dove trascorse 53 anni di vita, sagrista della chiesa del convento presso il cimitero.
In lui rifulsero sempre chiare virtù cristiane che esercitò per tutta la sua esistenza, distinguendosi per umiltà, povertà, castità ed ubbidienza e, soprattutto, suprema penitenza. Ebbe sempre un misterioso timore della scienza, tant’è che è nota la sua dichiarazione “non voglio sapere”. Della sapienza di Dio che è spirito di intelletto e di fortezza, di prudenza, consiglio e pietà ne aveva a sufficienza per tenere alti la testa ed il cuore, pronunciando di conseguenza la sua parola e portando sempre con sé il Vangelo e la Regola. Semplice e giusto, le sue parole spargevano pace e bontà, ponevano l’ordine nel disordine, la pace nella discordia, facendo sempre fiorire una speranza dove vi era la desolazione. Proprio a Guastalla ebbe origine e si diffuse con rapidità la fama della sua santità. A lui, martire oscuro del silenzio e della rinuncia, fatto custode geloso di Dio e delle cose sue, le persone iniziarono, numerose, a rivolgersi per avere benedizioni, consigli e preghiere. Grazie singolari sono attribuite alla sua intercessione. In particolare sono passate alla storia le prodigiose guarigioni di Felicita Allari di Gualtieri e della contessina Elena Rados di Guastalla, entrambe affette da una forma grave di tisi che dai medici era stata giudicata inguaribile. Inoltre, nel 1780, quando una piena del Po minacciava da giorni la città e le acque avevano già inondato le campagne con la loro furia devastatrice, la popolazione disperata irruppe nel convento, prelevò l’anziano cappuccino e lo portò sugli argini a benedire le acque, che miracolosamente si abbassarono. Anche dopo la sua morte, avvenuta il 13 dicembre 1781 nel convento di Guastalla, i miracoli si ripeterono in gran numero tra coloro che accorsero a venerare le venerate spoglie. Unitamente alla tradizione popolare circa la santità del cappuccino, questi fatti portarono la suprema autorità ecclesiastica ad avviare la causa di beatificazione. Nel 1876 iniziò il processo di beatificazione che nel 1894, a conclusione del processo apostolico, gli conferì il titolo di Venerabile. Inizialmente la salma del venerabile fu inumata nella chiesa dei cappuccini a Gustalla e nel 1920 fu quindi traslata nella cattedrale della stessa città, in un artistico sarcofago marmoreo dove tuttora riposa. Tra gli illustri “figli” francescani delle terre del medio Po, spicca anche un altro venerabile: padre Daniele da Torricella (Dario Coppini), pure lui cappuccino, nato a Torricella di Sissa Trecasali il primo settembre 1867, da Adolfo Coppini ed Ernestina Pecchioli. Primo di otto figli, vestì il saio cappuccino il 9 gennaio 1897 e fece la professione solenne il 14 aprile 1901 per poi essere ordinato sacerdote nel 1903. Trascorse tutta la sua esistenza al capezzale dei malati negli ospedali di Piacenza, Modena e Reggio Emilia. La sua straordinaria opera di assistenza ai sofferenti aveva qualcosa di commovente. La sua giornata era un intrecciarsi continuo di tanti piccoli atti di inesauribile bontà, tanto da divenire l’uomo di tutti. Passava di giorno e di notte per le corsie sempre con lo stesso sorriso, interessandosi ai bisogni di ciascuno. Era un apostolo prezioso non solo dei malati ma anche del confessionale (oltre che maestro dei novizi e direttore spirituale degli studenti cappuccini) e, nel 1930, fu fondatore della congregazione delle Suore Missionarie Francescane del Verbo Incarnato insieme a madre Giovanna Francesca Ferrari, a sua volta venerabile. Morì in concetto di santità il 10 dicembre 1945, a pochi mesi dalla fine del secondo conflitto bellico. La santità di padre Daniele emerge anche dai suoi scritti, in uno dei quali così delinea la carità: “Avere carità vuol dire sacrificare le proprie vedute, i propri giudizi, le proprie ragioni; rispondere senza asprezza; sopportare con pazienza le altrui esigenze, le offese e i rimproveri; sapersi accomodare alle debolezze di tutti, ascoltando senza noia o almeno senza dimostrarla, i racconti che non ci interessano; non irritarsi per un’opinione contraria alla nostra; non sostenerla con calore e ostinazione. Come il fiore attira l’ape, così la carità dolce, affabile, attira gli umili, i poveri, gli afflitti, tutti quelli che Gesù prediligeva”. A 11 anni dalla morte venne avviato il processo canonico di beatificazione e il 2 aprile 1993 ne è stata riconosciuta l’eroicità delle virtù, che gli ha meritato il titolo di venerabile. Infine, altra significativa figura francescana delle terre del Po, è quella di padre Tarcisio Benvegnù, frate minore francescano, originario di Monticelli d’Ongina. Nacque nel 1911 e morì nel 1969 (ricorre quindi il 55esimo della morte). Trascorse ben 25 anni da missionario in Cina, proprio nel periodo in cui era al potere nientemeno che Mao Tse-Tung. Padre Tarcisio fu il primo, con l’aiuto di un apposito team, a tradurre la Sacra Bibbia in cinese. Tuttora parecchi suoi familiari vivono tra le province di Cremona e di Piacenza e, pochi anni fa, è stato ricordato a Fogarole (frazione di Monticelli d’Ongina), dove visse per diversi anni e dove celebrò, il 22 luglio 1934, la sua prima messa. Nella chiesa di Fogarole in quella occasione è stata posta una lapide in cui si legge: “A ricordo della prima santa messa celebrata a Fogarole il 22 luglio 1934, dove abitò per diversi anni padre Tarcisio Benvegnù, sacerdote zelante di cultura enciclopedica, missionario per 25 anni in Cina, traduttore della Sacra Bibbia in lingua cinese. Una serie di importanti e belle figure francescane, “figli” delle terre del Po, che hanno fatto dell’umiltà, della semplicità e della fede, nel solco profondo della povertà, il loro stile di vita e, soprattutto, la loro missione. Figure da non dimenticare e da valorizzare, anche in vista di due importanti appuntamenti: quello del Giubileo del 2025 e quello dell’ottavo centenario della nascita al Cielo di San Francesco d’Assisi, patrono d’Italia (anniversario che ricorrerà nel 2026) e simbolo mondiale di quei valori di pace, fratellanza ed ecumenismo fra i popoli dei quali questi religiosi sono stati testimoni zelanti, coraggiosi e preziosi.
Eremita del Po