Anatomia di una caduta: il “re” Alcaraz è nudo agli US Open

18 giorni ago

Anatomia di una caduta. Non è semplice andare a fondo della sorpresissima nella notte di New York: capire i perché della pesante sconfitta di Carlos Alcaraz, buttato fuori al secondo turno degli US Open da un olandese poco volante, ma tremendamente solido. Lo score è impietoso: 6-1, 7-5, 6-4. È stato un ko consumato in 2 ore e 19 minuti, passati senza che lo spagnolo — numero tre del mondo ma, secondo gli aficionados, il più forte dei più forti — trovasse la chiave per girare il match. È vero che Botic Van de Zandschulp, nome che è uno scioglilingua, ha giocato come mai in vita sua, però la giustificazione non basta. Mortifero al servizio, insuperabile da fondo, errori gratuiti con il contagocce: investito da una tempesta perfetta, il superfavorito si è trovato senz’armi, strapazzato manco fosse un cencio bagnato.

Alcaraz - Figure 1
Foto La Voce di New York

L’avvio del murciano è stato un mezzo calvario, troppo brutto per essere vero. Pareva però solo uno dei non rari set buttati via con superficialità, quando sa di potersi permettere un passaggio a vuoto senza pagare dazio. Non è stato così. La trama racconta di un secondo parziale lottato: l’olandese ha sporto il naso avanti, ma Alcaraz ha rimesso le cose a posto facendo la voce grossa con un immediato controbreak. Doveva essere l’inizio della reazione. Invece no: sommando errori e indecisioni, caos e disorganizzazione, Carlitos non è mai riuscito a prendere il largo. Anzi. Arrivati al cinque pari, è stato l’olandese a piazzare lo sprint, infilando nello zaino un vantaggio cospicuo. A quel punto il pubblico dell’Arthur Ashe ha capito che stava forse per materializzarsi un colossale imprevisto: ha spostato il tifo dall’underdog al reuccio in crisi, eppure non è bastato. Terzo set, punteggio di 4-4: Alcaraz sbaglia tutto, subisce il break letale, VdZ serve per il match senza tremare e chiude a zero. Fine.

Che cos’è successo in campo? “Volevo darmi un’occasione e ce l’ho fatta,” ha spiccicato l’olandese, più frastornato del rivale. La sua è una storia di porte girevoli. A giugno, ferito a morte dalla pesante sconfitta a Parigi contro Fognini, parlava di abbandono. “Mi sento al limite,” rivelò. Aggiungendo: “Pensavo di giocare meno, ma se non gareggi 30 settimane all’anno non puoi stare tra i migliori. Sto considerando l’idea di ritirarmi.” E invece eccolo qui. Dal canto suo, Carlos ha provato a spiegare, confuso non meno che deluso. “Non so che dire. Botic ha giocato alla grande, sempre in forcing, non sbagliava niente. Non sapevo come gestirlo, come affrontarlo: non colpivo bene la palla, non sono riuscito a esprimere la solita qualità.” Questo è chiaro. Restano oscuri i motivi interiori della disfatta, al di là dei problemi tecnici. Lo sconfitto ha provato a pensare ad alta voce: “Il calendario è durissimo. Ho giocato tante partite, sono arrivato qui a New York senza molte energie. Mi ero preso qualche giorno di pausa dopo le Olimpiadi: pensavo fosse sufficiente, evidentemente non lo era. Non ci sono scuse. Durante l’incontro ho cercato di lottare anche contro me stesso, contro la mia mente, non solo contro il mio avversario.”

Winner Botic van De Zandschulp greets Carlos Alcaraz at the USTA Billie Jean King National Tennis Center in Flushing Meadows, New York, USA, 29 August 2024 ANSA/EPA/SARAH YENESEL

“Non sapevo cosa fare.” È il motivo ricorrente per gli stop, a volte dolorosi, di un ragazzo di ventuno anni che è stato il più giovane numero uno di sempre, capace in questa stagione di vincere al Roland Garros e a Wimbledon: la terra rossa e l’erba, due mondi che più diversi non si può. Il suo gioco è straordinario, divertente, spettacolare, ad altissimo tasso atletico. È un fuoriclasse che ha fatto e continuerà per tanto tempo a fare la storia del tennis. Logico che, per esprimere interamente il suo talento, debba essere al massimo o quasi della forma psicofisica: il circuito di oggi, con le pressioni e i ritmi forsennati che impone, lo rende impossibile. Che le sue energie nervose somigliassero a una pila scarica si era visto due settimane fa a Cincinnati, quando Alcaraz ha fracassato la racchetta per la frustrazione della sconfitta con il francese Monfils. Un gesto inedito. “È stata la più brutta partita della mia vita, mi dispiace per la reazione,” si era scusato sconsolato. È davvero tutto qui?

Torniamo a quel motivo misterioso, alloggiato nei meandri del cervello. Torniamo al 31 luglio di due anni fa, finale del torneo di Umago. Vinto il primo set al tiebreak sull’alter ego Sinner, Carlitos aveva incassato un doppio sconcertante 6-1. “Non so che cosa fare,” ripeteva inerme al suo angolo, invocando un aiuto che non poteva arrivare. Alla fine della sfida, davanti ai microfoni ammise: “Jannik ha iniziato a giocare sempre meglio e non ho trovato soluzioni.” Il dopo match di stanotte è l’esatta fotocopia: “Ho fatto dei passi indietro a livello mentale. Dopo certe brutte sconfitte mi siedo e dico: non ho saputo gestire la situazione, non ho saputo cosa fare. Non sarà facile, però devo riflettere, imparare e migliorare,” è stata la conclusione. La realtà è che questi campioni non sono supereroi: si presentano alla ribalta precocemente, con l’io ancora in costruzione. Sopportano uno stress durissimo, spesso senza avere gli strumenti adatti a sostenere il carico. Sono ambiziose macchine da soldi e da spettacolo. Sinner piace tanto perché è diverso. È consapevole, trae insegnamento dagli insuccessi, ragiona con la propria testa, non dice mai banalità: vuole vincere com’è normale per un campione, però cerca di ricordarsi in ogni momento che l’importante è essere felice di quel che fa.

Per questo motivo, malgrado la recente disavventura del doping che gli ha scavato un solco nell’anima, diventa il favorito degli US Open. A dispetto di una preparazione per forza di cose non all’altezza. In condominio con Djokovic, il vecchio zio che sa tutto dello sport del diavolo e dei suoi mille risvolti, e resta l’asso pigliatutto. L’uscita di Alcaraz apre però insperati spiragli al resto del plotone. Medvedev può arrivare fino in fondo, Zverev lo stesso e così uno degli americani in gara — Fritz o Shelton, probabilmente. Volendo raschiare l’osso, sono in cinque per la vittoria. Come al cinema, tutto può succedere.

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