Andy Luotto: «Io, cuoco per vocazione, attore per caso. La cucina mi ...

17 giorni ago
Andy Luotto

l’intervista di Chiara Amati «Fare il cuoco è il mestiere migliore al mondo: regala felicità». Così Andy Luotto, oggi executive chef in un ristorante di Rapallo, parla della sua viscerale passione per la cucina. «Ho lavorato tanto per realizzarmi in questo ambito, facendo di tutto. Persino l’attore, per “colpa” di Arbore»

«Io? Sono diventato attore per colpa di Arbore. E cuoco… per colpa del sugo caramellato di Maria, la governante di famiglia». Classe 1950, americano di origine, ma italiano d’adozione, André Paul Luotto , per il grande pubblico Andy Luotto , ci parla dalla cucina del ristorante di cui è executive chef, «Il Salotto di Rapallo», in un raro momento di pausa: «Devo cogliere l’attimo. Qui siamo solo in cinque: io e quattro ragazzi, tutti un po’ folli. Sarà forse per questo che mi trovo tanto bene . E dire che qualche mese fa stavo andando in Maremma a firmare il contratto per un altro locale».

Poi che cosa è successo?

«Vincenzo Maruccio, patron dell’hotel RosaBianca qui a Rapallo, mi ha convinto a prendere in mano le cucine del ristorante. Un posto suggestivo con affaccio sul Golfo del Tigullio. Non ha dovuto ripetere la domanda: ho detto sì. Il team è affiatato. C’è chi vorrebbe che io cucinassi in sala, davanti a tutti. Il che, per un uomo narciso come sono io, sarebbe gratificante. Sa, quando preparo i gamberoni flambati mi sento onnipotente. Una volta mi sono anche bruciato la barba: avevo messo troppo cognac. Ho fatto finta di niente».

Un attore prestato alla cucina?

«No. Sono un attore per sbaglio, cuoco per vocazione. Sono nato e cresciuto in America, insieme a mamma che oggi ha 101 anni e sta benone. A 14 anni ero già stato in riformatorio un paio di volte: ci sarei dovuto rimanere fino a 21 . Ho sempre avuto un carattere indomito tanto che mamma, a un certo punto, decise di spedirmi da papà. I miei genitori erano separati: credo di averli visti insieme soltanto a uno dei miei matrimoni e a un battesimo . Mamma, cinque lauree e un lavoro da ricercatrice che la assorbiva nottetempo, era sempre indaffarata. Quando mi spedì a Roma, in una mano mi mise la valigia, nell’altra la foto di papà : sarebbe stato più semplice per me riconoscerlo all’aeroporto. Lei rimase in America, sarebbe arrivata in Italia un anno e mezzo dopo».

A Roma che cosa accadde?

«Intanto non dovevo andare in riformatorio e solo per quello mi sentivo sollevato ( ride ). All’epoca, era il 1965, papà curava il miglior cinema italiano per mercati anglofoni. A casa transitavano personaggi pazzeschi: Fellini, Visconti, Zeffirelli, Sophia Loren ... Io non sapevo chi fossero — non ero mai stato al cinema — ma provavo un senso di inadeguatezza. Difficile per me sostenere un pranzo o una cena insieme a loro: preferivo rifugiarmi in cucina. Papà comprese il disagio, così mi affidò alla governante, Maria Illuminati , donna indimenticabile e cuoca strepitosa . Aveva solo un difetto: non parlava una sola parola d’inglese, ma d’altra parte io non parlavo una sola parola d’italiano. Comunicavamo a gesti . Nonostante ciò riuscimmo a capirci: esilarante. Sarà stato il cognome, fatto sta che fu lei a illuminarmi, a darmi consapevolezza della mia vocazione».

In che modo?

«Una volta, affranta per il nostro dialogo bilingue senza traduzione, mi portò una pentola di sugo che ancora ribolliva con, accanto, del pane. Mi fece capire di fare scarpetta. Afferrai un tocchetto di pane e lo immersi nel mezzo della pentola . Mi riprese. Scarpetta, capii subito dopo, si fa sui bordi dove il sugo tende a caramellare. Credo di non avere mai mangiato una cosa tanto buona. Ecco, quel giorno scelsi di diventare cuoco . Oggi, come allora, vivo nella convinzione che sia il più bel mestiere al mondo. Vedere alla mia tavola un commensale appagato vale più di tanti applausi a scena aperta».


Ha frequentato un istituto alberghiero?

«Soltanto dopo. A Roma mi iscrissi al liceo internazionale. Una volta preso il diploma, tornai in America. All’università di Boston conseguii due lauree: una in sociologia, l’altra in comunicazione visiva . Il che porterebbe a pensare che io sia un mago nella realizzazione di filmati didattici. O che sia intelligentissimo, ma ci credo soltanto io. Un po’ furbo, però, mi sento. Alla fine degli studi universitari mi chiamarono alle armi: destinazione Vietnam. Io ripartii per l’Italia. E mi iscrissi alla scuola alberghiera di Castellana Grotte , in Puglia. Il mio insegnante, cavalier Angelo Consoli, mi diede due sole regole: “Cerca sempre ottime materie prime, di stagione e del territorio” e “Scaldale”. Tradotto: lavorale il meno possibile. Se oggi sono un cuoco, anche piuttosto bravo, gran parte del merito è suo».

Luotto, lei però è prima di tutto attore, non può negarlo.

«Solo per una questione temporale. All’epoca mi dilettavo a girare documentari: sud Sudan in Africa, Amazzonia con Giovanni Minoli ... Quando rientrai in Italia, con un debito di 35 milioni di lire — cifra assurda per gli anni Settanta — dovetti trovarmi dei lavoretti che mi permettessero di sbarcare il lunario e realizzare il sogno gastronomico. Mi aiutò un amico di Parma . Lui aveva una azienda di oggetti in plastica. Io presi il mio Ford Transit, levai i sedili e vi imbarcai sacchetti per l’immondizia: tantissimi a prezzi stracciati. Andavo per i mercati rionali a venderli, strillando al megafono. Ha presente l’arrotino? Ecco, qualcosa del genere . E trattavo con chiunque mi capitasse a tiro: “Cento sacchetti per mille lire! Non li hai? Facciamo cinquecento lire, allora. Neppure cinquecento? E quanto hai?”. Ero scanzonatissimo, mi divertivo: ho persino fatto carriera. Prima i sacchetti, poi degli scolapasta, alla fine gli scopini del cesso. Arbore rimase colpito ».

Difficile crederlo. Come attirò la sua attenzione?

«Era il periodo delle prime televisioni private. Un giorno una troupe mi riprese mentre facevo il cretino e confezionò un filmato che circolò per mesi. Oggi sarebbe virale. Arrivò a Renzo Arbore, mi fece chiamare al bar che frequentavo: a casa non avevo il telefono. Ricordo il dialogo, surreale, con lui che mi chiese: “Scusa, ma tu fai il comico? E io che risposi piccato: “Ma come si permette?”. Mi propose di fare televisione insieme a lui, accettai. Non si fece sentire per un anno, poi mi ritrovai a “L’altra domenica” con Isabella Rossellini, Milly Carlucci, le sorelle Bandiera . Io facevo il cugino scemo di Renzo Arbore venuto dall’America: lui è sempre stato molto americanofilo. Spaccammo . Il successo mi colse d’improvviso. Pensai che, dopo quella esperienza, sarei tornato a girare i miei documentari e a fare il cuoco itinerante. Invece mi proposero dei film, primo su tutti “Super Andy, il fratello brutto di Superman”. Terribile. Chiesi quanto mi avrebbero pagato per farlo: “Considerato che si tratta del primo film, dovrà accontentarsi di 60 milioni di lire ”. Risposi che ne avrei girati altri cinque o sei. Avevo il famoso sogno da realizzare: accettai la qualunque, non avevo un concetto di valore».

Poi fu la volta di «Quelli della notte».

«Era il 1985, l’anno della mia consacrazione. Mi cercavano tutti, arrivai persino a cantare. Io ero così stranito e confuso che mi convinsi di saperlo fare . In realtà avevo poco più di un orecchio musicale».

Insomma, ha fatto di tutto.

«Sì, quando si ha un obiettivo, lo si insegue costi quel che costi. Non sono machiavellico però: il fine non giustifica necessariamente i mezzi. Nessun illecito. Nel mio curriculum trova anche la voce “istruttore subacqueo” e… eh sì, “ragazzo immagine per il WWF”».

Onore al merito Luotto: lei ha girato anche film di pregio.

«Vero. Luciano De Crescenzo , un gigante, mi propose di prendere parte al cast de “Il Mistero di Bellavista”, facendomi scrivere la parte di Frank Amodio, ruolo che poi ho interpretato. Un’esperienza incredibile, mi emoziona ancora oggi. Poi ho lavorato meravigliosamente con Marisa Laurito, Lina Sastri, Silvia Annichiarico, Gigi Proietti, Gabriele e Lorenzo Lavia, Ricky Tognazzi, Simona Izzo e molti altri. Per Ricky Tognazzi feci il film “I Giudici”: mi prese dopo cinque provini. Mi ero studiato la parte della guardia. Lui volle che interpretassi Paolo Borsellino. Andai da un amico truccatore per somigliare al magistrato. Mi riconobbe solo Simona Izzo. Mi chiese: “Ma come ti sei borsellinato?”. Soddisfazioni! Ma…».

Ma cosa?

«Io ambivo al ruolo da cuoco: me lo sono creato, nella vita vera. E ho cucinato nelle cucine di grandi alberghi di lusso, per famiglie reali, a casa di Ugo Tognazzi . Uomo incredibile. Io e altri suoi cuochi preparavamo i piatti, lui veniva a prenderli e li portava ai suoi commensali. Amava il convivio . Come dargli torto? Il cibo è vita, è confronto, incontro, talvolta anche scontro. Il cibo ti permette di conoscere persone nuove. Pensi che, una volta, a Rimini vidi un tale che dormiva a testa all’ingiù. Era Renato Guttuso . Gli chiesi un autografo, mi regalò uno schizzo».

Il banchetto di cui va più fiero?

«Per i senzatetto della stazione Termini: fu un Capodanno memorabile, del tutto spontaneo, con la Polizia che voleva cacciarmi . Alla fine gli agenti mi aiutarono a servire ai tavoli e sì, mangiarono anche loro. Uno dei momenti più appaganti di tutta la mia vita».

Che tipo di cucina propone a «Il salotto di Rapallo»?

«Direi emozionale. Nei miei piatti può trovare un mix di tradizione romanesca, ricordi d’infanzia ed elementi contemporanei . Il tutto sempre realizzato con materie prime di qualità: un’ossessione per me. Vorrei che chi viene a mangiare da noi si sentisse a proprio agio, come se fosse seduto a quel pranzo della domenica di cui, ahimè, s’è persa ogni traccia. Penso anche che la gente abbia smarrito la capacità di fare la spesa . I “piccoli spacciatori” — mi piace chiamare così i negozianti-artigiani, coloro che un tempo ti consigliavano il taglio di carne migliore, le verdure più fresche, i formaggi più gustosi — non si trovano più. Per onorare il mestiere del cuoco bisogna tornare alla terra . Le racconto un aneddoto: a 40 anni decisi di fare visita al mio insegnante, sempre il Consoli. A memoria era alla soglia dei 90. Gli domandai consigli per la mia vita. Lui? Mi portò nei campi, dentro ai caseifici, sulle barche dei pescatori. Fu un’epifania».

La ricetta che le viene meglio?

«Gli spaghetti al pomodoro: li cucinai anche per una tribù di pigmei in Africa, all’ombra di un banano . C’è un video che documenta, eh. Ho anche insegnato loro un po’ di italiano: “Porca vacca, manca il basilico”. Ci siamo divertiti. Oggi quegli spaghetti li preparo con cinque tipi di pomodoro e una tecnica precisissima. Le do qualche dritta, prenda appunti: l’aglio non deve imbrunire, la cottura deve avvenire a bassa temperatura, la mantecatura dev’essere delicata. Ma soprattutto ai pomodori io parlo, li accarezzo. È il modo di trasmettere calore a chi mangerà quel piatto».

Parla sul serio?

«Su certe cose non scherzo mai».

È vero che c’è del pregiudizio nei suoi confronti?

«Ahimè sì. La cosa bizzarra è che a storcere il naso davanti a Luotto-cuoco sono colleghi importanti. Colleghi cuochi, se preferisce chef, non attori. Pensano a me come a un teatrante che fa ridere e mi schifano. Poi però copiano i miei piatti e qui mi taccio. Non me la prendo: non sono permaloso, né soffro di gelosie. Sono sicuro di me, anche perché ho avuto maestri eccellenti — Enrico Derflingher, Tonino Verro, Nicola Savino, Berardino Lombardo, Pietro Zito... — e mi appoggio a consulenti straordinari: Igles Corelli, Alfonso Iaccarino, Iginio Massari… In cucina c’è sempre da imparare e questo è motivante».

Come si vede in futuro?

«Ho 74 anni e tantissima energia in corpo. Qui a Rapallo sto benone. Se mi vogliono, resto. Da aspirante terrone, però, non nego che mi piacerebbe aprire un ristorante mio, nel sud . Quattro tavoli soltanto, un menu cortissimo e tanto tempo per andare a fare la spesa, all’alba, quando la scelta è ampia e migliore. Un buon piatto comincia dalla terra, il mattino presto».


Luotto, mi tolga una curiosità: ma è vero che ha 40 tatuaggi?

«Non proprio: a essere precisi sono arrivato a 50 e tutti a tema food. L’ultimo è un tocchetto di parmigiano. Poi ho del pane e salame, della cicoria, sei o sette tipi di pesce, una piantina di basilico. Mia moglie dice che sembro un carrello della spesa. Quando vado da mamma, invece, tocca coprirli tutti o diventa matta. Comunque ho ancora molto spazio: in occasione dei miei primi 80 anni potrei fare uscire un asparago dal collo . Anzi no!, quello l’ho già. Penserò ad altro. Se non si fosse capito, la cucina è felicità. Comincio a regalarla, la felicità, a partire da me, nella mia semplicità. Poi faccio parlare le mie ricette perché io sono un cuoco. La migliore delle parti nel copione più straordinario di sempre».

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