Chi è Sarah Grittini, la stylist di Benedetta Porcaroli (e non solo) ora ...

18 Gen 2024
Benedetta Porcaroli

Benedetta Porcaroli in Gucci

Mondadori Portfolio/Getty Images

Benedetta Porcaroli in Gucci e Pomellato

Daniele Venturelli

Benedetta Porcaroli in Prada e Pomellato

Mondadori Portfolio/Getty Images

Vien da dire che ti piace molto il rosso…
Sono ossessionata dal Pantone, lo vedo un po’ come l’anticipazione di quello che accadrà. Prendiamo proprio a esempio il rosso, presentissimo sul red carpet degli ultimi Golden Globes. Il mio lavoro sta anche nel raccontare una semplicità di forma: quando parli di colore non hai bisogno di confini. La nostra storia, con Benedetta, parte proprio dal rosso. Le calze di Wolford - citate sopra - hanno dato il via a una nuova consapevolezza. Nel lavorare insieme non c'è solo la responsabilità del mio lavoro ma anche la ludicità, Benedetta è mia compagna nel gioco. C’è una verità in tutto quello che stiamo facendo e penso si veda molto.

Benedetta Porcaroli in Gucci

Kate Green/Getty Images

Benedetta Porcaroli in

Marco Piovanotto / ipa-agency.net

Come funziona il tuo lavoro se lo dovessi spiegare a chi non è del settore?
L’osservazione e la curiosità sono fondamentali. Dietro a un outfit c’è un lavoro pensato, non basta che una persona abbia un bel fisico o che sia bello. Si lavora molto con gli uffici stile dei brand, sono pazzeschi, devono da una parte tradurre il direttore artistico, dall’altra ascoltare cosa viene proposto e richiesto per un red carpet. Nello styling mi sento competitiva, maniacale talvolta. Mi fisso su determinate cose, come per esempio il fiocco dietro all’abito Prada di Benedetta e Venezia: era importante che avesse quella forma, e quello spessore lo teneva bello in alto. Io consiglierei, a chi vuole intraprendere questo lavoro, di vedere tanti film, anche di epoche diverse ma girate in ambito contemporaneo. The Wire racconta la città di Baltimora, lì vedi proprio come cambia l’uso degli abiti, come sono diverse le dimensioni. Capisci anche da alcuni film sulla old New York il primo vero quiet luxury, come quello inventato allora di Donna Karan. Devi essere ossessivo sugli abiti, puoi prendere ispirazione ma devi sempre dargli una nuova chiave di lettura.

La differenza tra essere stylist per un giornale e per una star?
Io come stylist guardo sempre il corpo. E questa è la grande differenza tra fare styling per una rivista o per una star, un po' come la sostanziale differenza tra il ping pong e il tennis. Trovo che la moda sia sempre un buon pretesto, è l’occasione per raccontare cambiamenti, devi capire come adoperarti per il codice da utilizzare. Non mi piace toccare la stravaganza fine a se stessa, mi piace piuttosto la finta semplicità che crea mondi, e vado sempre per sottrazioni. Un atto, nella moda editoriale, in cui il grave errore è diventare abile, perché non sei più disposto all’ascolto e smetti di reinterpretare. Lo styling con una star è invece un racconto diverso. La tua visione deve essere al servizio e mai protagonista. E non vuol dire che essa sia inferiore, anzi, bisogna solo essere propensi all’ascolto nei confronti della creatività dell’artista per fargli interpretare al meglio il suo percorso.

Alba Rohrwacher in Bottega Veneta

Lionel Hahn/Getty Images

Isabella Ferrari in Giorgio Armani

Jacopo Raule/Getty Images

Come si diventa stylist, per chi vuole intraprendere una carriera simile alla tua?
Trovo importantissimo fare percorsi del settore, oltre alle scuole che sono il primo step fondamentale. Lo styling inizia dalla gavetta. Io sono contenta di aver fatto molta assistenza; sono stata un vampiro e ho appreso le cose migliori dai professionisti, e adesso questa forma di intelligenza la riconosco. Forse è questo il grande gap in qualsiasi studio che si decide di fare: ci vuole l’intelligenza dell’ascolto, altrimenti resta un esercizio narcisista. Lo styling non è decidere cosa si vuole indossare. Al contrario significa avere curiosità e fare tanta ricerca. Rifarei tutto. Consiglio questo: essere consapevoli che in questo lavoro bisogna saper fare anche le valige, leggere un carnet, preparare una bolla. E quando arrivi su un set con venti giacche nere devi saper individuare quella che ti stanno chiedendo. Non meno importante è anche la conoscenza dei tessuti: su una persona magari funziona meglio il duchesse rispetto al crepe di seta.

Benedetta Porcaroli in Schiaparelli e Pomellato

Daniele Venturelli/Getty Images

Benedetta Porcaroli in Gucci e Pomellato

Maurizio D'Avanzo / ipa-agency.net

Come hai capito che volevi fare la stylist?
Quando ho messo piede in un set fotografico. Bisogna scegliere in base all’istinto: prima individui il pianeta, per esempio il pianeta moda, poi devi capire se ti piace scrivere, lavorare sul prodotto, fare styling o essere una figura più ibrida. Io mi ritengo tale perché mi piace anche l’idea di fare costumi, secondo Piero Tosi sarei un’ottima costumista. Lui in me vedeva un’interessante chiave di lettura che arrivava da mia nonna, sarta. Questo fa capire cosa si vuole diventare: unire l'esperienza al bagaglio culturale. Le cose non sono sempre casuali, sono spesso volute. E il talento va educato, anche nella moda, arte non inferiore ad altre ma un egual strumento per studiare e gestire il cambiamento sociale.

Benedetta Porcaroli in Prada

Stefania D'Alessandro

Benedetta Porcaroli in Gucci

Mondadori Portfolio/Getty Images

Lavori divisa tra Italia e Los Angeles. Quale è la grande differenza nella gestione del lavoro?
Nel sistema americano esiste un vero e proprio Star System, che ancora manca da noi. C’è una scelta iniziale completamente diversa nel mio lavoro: in Italia sei scelto dal talent, in America vieni selezionato da un entourage e appartieni a un team con determinate guide decisionali.

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