Dai BTp al Bitcoin: chi vince e chi perde sui mercati con la vittoria di ...
ServizioL’impatto sul portafoglio
La vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi ha portato a un’ampia reazione dei mercati finanziari, con effetti su azioni, materie prime, obbligazioni e criptovalutedi Vito Lops
6 novembre 2024
4' di lettura
Donald Trump è il 47esimo presidente degli Stati Uniti. Questa volta i sondaggi (e i bookmakers) hanno avuto ragione perché da qualche settimana lo davano in vantaggio sulla democratica Kamala Harris. E ha avuto ragione anche il mercato perché da fine settembre ha iniziato a posizionarsi sulle classi di investimento che più avrebbero potuto beneficiare (sulla carta) dei proclami annunciati dal magnate in campagna elettorale.
Da questo punto di vista il mercato si sta muovendo anche oggi a caldo in modo armonico come se gli investitori avessero ben chiaro lo scenario macro-economico che potrebbe andare a profilarsi con Trump nella Stanza Ovale, peraltro supportato (e questo non era affatto scontato) sia dal Senato che molto probabilmente dalla Camera (entrambi a maggioranza repubblicana).
Bene la Borsa, soprattutto le small cap
Trump ha dichiarato di voler ridurre l’aliquota sulle società. E questo piace alle Borse, in particolare alle small cap. Non a caso oggi l’indice azionario più in forma è il Russell 2000 (+5%) che ingloba le società statunitensi a medio-piccola capitalizzazione. Piace anche alle big tech. L’indice delle magnifiche 7 sale del 3%, spinta dalla performance di Nvidia (+4% con nuovi massimi storici a 145 dollari) e Tesla (+13% a 285 dollari). La società guidata da Elon Musk merita una menzione a parte perché Musk ha sostenuto fin dall’inizio la campagna elettorale del magnate prendendo parte attiva in qualche comizio e finanziandola in modo corposo (con un assegno da 75 milioni di dollari). Nel primo mandato di Trump (2016-2020) sono andati molto bene i titoli della old economy e le compagnie petrolifere. Il Trump 2.0 potrebbe continuare a favorire i titoli petroliferi (in particolare le aziende che operano nello shale oil) con uno sguardo anche verso il futuro. Potrebbe essere un po’ più green, o comunque ostacolare con i dazi l’espansione della Cina sulle auto elettriche, tallone d’Achille per Tesla negli ultimi complicati trimestri.
Bene banche e petroliferi
Trump piace molto al comparto finanziario. Non a caso i titoli finanziari statunitensi (inglobati nell’Etf Xlf) hanno aggiornato nuovi massimi storici. Oggi sale del 5% facendo segnare la migliore performance. Al secondo posto, manco a dirlo, il comparto energetico (Etf Xle in rialzo del 3,5%). Il petrolio è l’unica materia prima a salire. Le altre stanno pagando il dazio del forte rialzo del dollaro che con un balzo del +1,8% sta registrando una delle migliori performance giornaliere di sempre. Trump è associato a un dollaro forte che fa rima con dazi e protezionismo. Ed è per questo che dall’altro lato dell’Oceano le Borse europee stanno soffrendo con un calo medio dell’1,5% in netta divergenza rispetto all’indice S&P 500 che ha superato i 5.900 punti per la prima volta nella sua storia.
Trump non piace al mercato obbligazionario
Dollaro forte fa rima con tassi più alti. E, se dobbiamo dirla tutta, Trump non piace agli investitori del mercato obbligazionario. Man mano che i sondaggi lo davano per favorito i rendimenti dei Treasury a 10 anni, scivolati fino al 3,6% a metà settembre sulle aspettative di una Fed più accomodante e di un’inflazione calante, hanno ripreso la strada del rialzo. La vittoria di Trump li ha riportati al 4,5% e c’è chi non esclude a questo punto che possano tornare a bussare alla soglia tecnica e psicologica del 5%. Gli investitori vedono infatti in Trump un presidente in grado di spingere il deficit pro-ciclico. In parole semplici di aumentare la spesa pubblica anche se l’economia, che viaggia con un tasso di disoccupazione del 4,1%, non ne avrebbe bisogno. Ci si aspetta che possa addirittura superare la pericolosa tendenza intrapresa negli ultimi due anni dalla maggioranza democratica che ha spinto il deficit oltre il 6% del Pil anche negli anni post-pandemici, a fronte di una media storica del 2,57%.