A Bologna l'occupazione di un palazzo si è risolta in modo diverso ...
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Sulle scale del condominio di via Carracci 63, vicino ai binari della stazione di Bologna, sono rimasti solo i resti delle reti di ferro che bloccavano il passaggio. Le barriere non servono più perché l’occupazione del palazzo è finita in modo diverso rispetto alle altre: non c’è stato uno sgombero, non è arrivata la polizia in tenuta antisommossa, non ci sono state tensioni e violenze. Le 111 persone che da quasi un anno abitano nei 24 appartamenti di “Carracci casa comune” sono ancora nelle loro case grazie a una convenzione approvata dal comune di Bologna lo scorso luglio, una soluzione temporanea all’esclusione di queste famiglie dal mercato immobiliare della città, sempre più inaccessibile per molti.
Il comune di Bologna guidato dal centrosinistra è tra i primi in Italia a firmare un accordo di questo tipo, coraggioso per chi sostiene il diritto alla casa, inopportuno per chi pensa che sia la legittimazione di un’occupazione abusiva.
“Carracci casa comune” è un palazzo arancione di tre piani e tre scale. Si riconosce dalla strada per via di due striscioni appesi sulla facciata nel giorno in cui è stato occupato. Si entra da un cancello che dà su un distributore di benzina, uno dei pochi rimasti nella zona dietro allo scalo ferroviario. Sul retro delle porte, al piano terra del condominio, è stato appeso un foglio con i turni delle pulizie scritti a pennarello e un altro con l’avviso in stampatello: “doposcuola tutti i venerdì dalle 17 alle 19”. L’atrio è più che altro un parcheggio per i passeggini e nel cortile c’è un continuo viavai di bambini: nelle case ne abitano circa 40, il più piccolo è nato un mese fa.
(foto Il Post)
Quasi tutte le persone che abitano nel condominio sono straniere e quasi tutte hanno un lavoro regolare. Molte lavorano nella logistica, altri sono camionisti, alcune donne sono assistenti in residenze sanitarie, altre operaie. La storia di Abdelaziz Allaoui è esemplare: è arrivato a Bologna una ventina d’anni fa, ha sempre lavorato, ha un buono stipendio, ma negli anni è stato costretto a cambiare casa quattro volte a causa del rincaro dell’affitto alla scadenza dei contratti. Negli ultimi tre anni, da quando gli è scaduto l’ultimo, non è più riuscito a permettersi una casa, anche perché nel frattempo è diventato padre di due bambini. «Non so quanti rifiuti ho ricevuto», dice. «Ho provato invano a chiedere un mutuo per comprare un appartamento, poi ho tentato di seguire i bandi delle case popolari. A un certo punto non sapevamo dove andare, quindi siamo venuti qui».
Secondo i dati diffusi da Immobiliare.it, uno dei principali siti italiani di inserzioni immobiliari e dunque abbastanza rappresentativo di come va il mercato, Bologna è la seconda città più costosa in Italia – dopo Milano – per le stanze in affitto: una singola costa in media 506 euro al mese e un posto in doppia 264 euro. Scorrendo le poche proposte di interi appartamenti è difficile trovare annunci a meno di 800 euro.
I prezzi sono cresciuti in pochi anni. Le ragioni sono generali – in tutte le città italiane l’aumento del costo dei mutui ha scoraggiato l’acquisto e rinvigorito il mercato degli affitti – e soprattutto locali: Bologna è una città relativamente piccola, dove poco meno di 400mila abitanti devono convivere con circa 70mila studenti universitari – di cui la metà fuorisede – e con migliaia di turisti, attirati negli ultimi anni da voli poco costosi oltre che dagli investimenti nella promozione del turismo, in particolare quello legato alla gastronomia emiliana.
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Il processo di turistificazione della città ha favorito l’aumento degli affitti a breve termine, in parte responsabile della diminuzione degli affitti più lunghi e stabili. I dati più recenti pubblicati da Inside Airbnb, un progetto indipendente che misura l’impatto degli affitti brevi in molte città, dicono che a Bologna sono disponibili 4.785 alloggi, di cui quasi l’80 per cento intere case e il resto stanze private o condivise. Fino al 2014 gli alloggi su Airbnb erano 700. Lo scorso anno gli affitti a canone concordato – più convenienti, con sgravi fiscali per i proprietari delle case – erano cinquemila in meno rispetto a dieci anni fa, gli affitti brevi quasi quattromila in più.
Così come in molte altre città europee, a Bologna le amministrazioni comunali che si sono succedute negli ultimi trent’anni si sono accorte in ritardo di queste trasformazioni e delle loro conseguenze, senza riuscire a governarle. Anzi, molte delle scelte politiche fatte nel recente passato hanno aggravato i problemi.
Prima del “piano abitare” presentato dall’attuale amministrazione (su cui torneremo più avanti) l’ultimo investimento consistente nell’edilizia pubblica fu portato avanti negli anni Settanta, quando il comune acquistò molti palazzi abbandonati del centro storico, li ristrutturò e li trasformò in case popolari. Da allora le spese per la manutenzione sono state scarse e una parte del patrimonio immobiliare pubblico è stata dismessa, venduta ai privati in operazioni definite “valorizzazioni”.
Con le liberalizzazioni introdotte negli anni Novanta diminuì il potere contrattuale degli inquilini e aumentarono i prezzi, sostenuti anche dalla crescita dell’università e del settore terziario. I costi proibitivi portarono molti abitanti a spostarsi verso le periferie e i comuni dell’hinterland, ma non bastò a regolare il rapporto tra la domanda di alloggi e l’offerta.
Negli anni Duemila sia le giunte di centrosinistra che di centrodestra si affidarono al mercato convinte che la costruzione di nuove case, quindi la crescita della città, avrebbe potuto calmierare i prezzi degli affitti. Furono approvati nuovi progetti, alcuni dei quali discussi per via delle dimensioni sproporzionate, riservati tuttavia a chi aveva redditi alti o al massimo medi. Gli investimenti per nuove case popolari e studentati pubblici continuarono a rimanere piuttosto bassi. Le persone inserite in graduatoria in attesa di un alloggio popolare aumentarono, ora sono più di cinquemila.
Una stanza dove gli inquilini stanno facendo lavori di manutenzione (foto Il Post)
Il condominio di via Carracci fa parte degli immobili pubblici dimenticati dai modesti piani di manutenzione. Fu costruito nel 1908, voluto dalla contessa Carolina Isolani che ne affidò la gestione alla Banca Popolare di Milano imponendo affitti bassi per aiutare le persone in cerca di una casa, per lo più operai. Negli anni Settanta fu acquistato dal comune e negli anni Duemila passò all’Acer (agenzia casa Emilia-Romagna), una società partecipata che si occupa di gestire le case popolari.
Nel 2019 Acer decise di interrompere i contratti di affitto e liberare il palazzo dagli inquilini. Non è mai stato chiarito quale fosse l’obiettivo di questa decisione, se ristrutturare o vendere. Da allora il condominio è rimasto sfitto, chiuso e abbandonato.
L’occupazione iniziata il 20 ottobre 2023 fa parte di una mobilitazione più ampia – chiamata Radical Housing Project – organizzata dai collettivi che negli ultimi anni hanno denunciato i danni delle politiche pubbliche nella gestione del patrimonio immobiliare. Il collettivo più attivo è PLAT – Piattaforma di intervento sociale: prima del condominio di via Carracci aveva organizzato l’occupazione di uno stabile di via Raimondi 41 e di una palazzina in via di Corticella 115. In entrambi i casi gli appartamenti erano stati sgomberati con la forza da carabinieri e polizia. Agli sgomberi erano seguite manifestazioni molto partecipate e molto tese, concluse con cariche delle forze dell’ordine.
L’ingresso della palazzina di via di Corticella murato dopo lo sgombero (foto Il Post)
PLAT definisce l’occupazione non un fine, ma un mezzo per dare una casa alle persone escluse dal mercato immobiliare e uno strumento di protesta e pressione politica. È una forma di mobilitazione perseguita dalla legge che tuttavia non ha conseguenze sulla disponibilità di case popolari e sul patrimonio pubblico, nel caso di via Carracci abbandonato da anni, estromesso dal mercato per volontà o inefficienza dell’azienda che lo gestiva. È un’occupazione che quindi non toglie case alle persone inserite in graduatoria, ancora in attesa.
A differenza delle occupazioni precedenti e di quelle organizzate da altri collettivi in città, in via Carracci è stato evitato lo sgombero per una precisa scelta politica del comune, deciso a evitare conseguenze più gravi. Sgomberare avrebbe significato farsi carico di decine di persone, dovendo trovare una sistemazione alle famiglie con minori, ospitandole in albergo a costi notevoli in mancanza di altri posti disponibili: un lavoro insostenibile per i servizi della cosiddetta emergenza abitativa.
Con Acer il comune sta per firmare una convenzione che gli permetterà di gestire gratuitamente il palazzo per i prossimi 30 anni. Diventerà una struttura per l’abitare collaborativo, cioè appartamenti affiancati da spazi comuni come cucine, doposcuola, spazi giochi, stanze per corsi di lingua. Nulla di molto diverso rispetto alle attività già proposte da PLAT insieme a molti attivisti volontari. Verrà fatto un bando aperto a cui potranno partecipare sia le persone che già abitano nelle case, sia altre che non riescono a permettersi un affitto.
Prima del bando dovranno essere fatti lavori di ristrutturazione, e sistemato il tetto. I primi interventi indispensabili sugli impianti elettrici sono già in corso. Si stima che i lavori costeranno in totale circa 4,5 milioni di euro, di cui 3 messi dal comune. La parte rimanente sarà trovata attraverso il bando, aperto anche a cooperative di abitanti o altre forme di aggregazione di inquilini disposte a sostenere una parte delle spese.
Nel frattempo le persone che occupano le case potranno rimanere grazie a un progetto definito di “transizione abitativa”, seguito da operatori sociali. «È presto per dire come finirà questa storia, ma possiamo parlare di una prima vittoria perché questa lotta ha bloccato la svendita di patrimonio pubblico: i 24 appartamenti di Carracci non diverranno sede per una speculazione edilizia», si legge nella nota con cui il collettivo PLAT ha chiuso la mobilitazione Radical Housing Project. «Con questa operazione 4,5 milioni di euro si spostano verso il basso, aprendo nuovi spazi rispetto al “chi decide” sulle risorse pubbliche. La legittimazione di “Carracci casa comune” è un piccolo risultato politico, che però a Bologna non accadeva dal lontano 1983».
Il sottotetto del condominio di via Carracci utilizzato come spazio giochi comune (foto Il Post)
La convenzione dovrà essere approvata dal consiglio comunale nelle prossime settimane. Il centrodestra all’opposizione ha già criticato la scelta della giunta parlando di «modello Salis», un riferimento all’europarlamentare Ilaria Salis, sostenitrice dell’occupazione come strumento di lotta politica. Le polemiche sono state alimentate anche da un fatto di cronaca, la denuncia per violenza sessuale presentata da una donna di 30 anni nei confronti del suo compagno e di un conoscente. Entrambi abitavano in un appartamento occupato nel palazzo di via Carracci. I consiglieri di Fratelli d’Italia hanno definito il mancato sgombero un insulto, inaccettabile e vergognoso, «uno schiaffo in faccia alla legalità e a chi chiede aiuto al comune seguendo le regole».
La vicesindaca Emily Clancy, assessora alla Casa e alle Politiche per l’abitare, sostiene che lo sgombero avrebbe causato ulteriore disagio e non avrebbe risolto i problemi, mentre la convenzione permette di risparmiare soldi pubblici e aumentare la disponibilità di posti per l’emergenza abitativa. Clancy sottolinea che è una soluzione nuova per il comune, parte di un piano molto più esteso, un investimento da oltre 200 milioni di euro per costruire 10mila nuove case nei prossimi 10 anni. «È il piano per il diritto alla casa più importante degli ultimi 40 anni», dice. Il piano abitare, così è stato chiamato, è una sorta di presa di coscienza degli errori fatti dalle amministrazioni passate.
Il comune punta a costruire tremila alloggi popolari dedicati alle persone più povere, agli studenti e a chi ha un reddito ma cerca un affitto a canone agevolato perché escluso dal mercato. La Regione Emilia-Romagna, l’università e alcune fondazioni pubbliche si sono impegnate a costruire altre duemila case. Le altre cinquemila faranno parte dell’edilizia privata convenzionata, cioè con canoni e regole di affitto decisi insieme al comune.
Molti di questi investimenti riguardano grandi spazi pubblici da riconvertire o immobili abbandonati come il condominio di via Carracci. «In passato molte case popolari sono state vendute per trovare i soldi necessari a mantenere quelle rimanenti, con scarsi risultati perché non ci sono più fondi strutturali per le case popolari», continua Clancy. «Lo stop alla vendita delle case popolari è diventato un principio del nostro mandato amministrativo».
Uno dei primi obiettivi è sistemare circa 700 appartamenti sfitti perché non mantenuti. Alcuni non erano abitati dal terremoto del 2012. Sono stati stanziati circa 10 milioni di euro a cui nei prossimi mesi potrebbero aggiungersene altri 2. È stato approvato anche un piano di riqualificazione energetica di 70 edifici per 3.300 appartamenti abitati, per permettere alle persone di ridurre i costi delle bollette.
Con la creazione di un’agenzia per la casa, invece, il comune entrerà nel mercato degli affitti diventando di fatto un intermediario immobiliare. L’obiettivo è facilitare l’incontro tra domanda e offerta grazie ad agevolazioni e garanzie pubbliche. Per esempio è stato istituito un fondo di 12 mesi per la morosità: significa che il comune garantisce 12 mesi di affitto nel caso in cui l’inquilino non possa permettersi di pagare. Il rischio di morosità è uno dei principali fattori che convincono i proprietari a scegliere l’affitto breve o addirittura a mantenere sfitti gli appartamenti.
È stato istituito anche un fondo per le piccole ristrutturazioni. Clancy dice che dalle ricognizioni fatte dal comune è emerso come molte persone non mettano in affitto le case perché non vogliono farsi carico di un investimento per la messa a norma: piuttosto lo tengono vuoto, nonostante in questi casi l’imposta municipale propria (IMU) sia la più alta possibile.
La cucina di uno degli appartamenti del condominio (foto Il Post)
La scorsa settimana a Roma, proprio mentre alla Camera veniva approvato un aumento della pena per il reato di occupazione abusiva, Clancy ha partecipato a un presidio insieme ad altri assessori e assessore alla Casa di grandi città italiane per sensibilizzare il governo sulla mancanza di politiche strutturali per le case popolari, e in generale per il diritto all’abitare. Con lei c’erano assessori di Milano, Roma, Firenze, Torino, Napoli, Verona, Parma, Padova, Lodi e Lecco, che fanno parte di un movimento di amministratori pubblici costituito nei mesi scorsi, chiamato alleanza municipalista.
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Anche se con diverse gradazioni e peculiarità, molte piccole e grandi città italiane hanno problemi simili a Bologna. Il confronto degli ultimi anni ha permesso di individuare alcune richieste che aiuterebbero a migliorare l’accesso al mercato immobiliare. Gli assessori chiedono una legge nazionale sull’edilizia residenziale pubblica e sociale, ora affidata alle regioni, l’assegnazione gratuita ai comuni degli immobili inutilizzati e abbandonati degli enti statali, il rifinanziamento del fondo nazionale per la morosità incolpevole quasi azzerato dal governo di Giorgia Meloni, una legge per consentire ai comuni di governare il fenomeno degli affitti brevi e limitare il potere delle piattaforme come Airbnb, fondi più consistenti per l’emergenza abitativa e le persone senzatetto.
PLAT nel frattempo continuerà a partecipare ai presidi contro gli sfratti e a sostenere le sue cause, come l’autorecupero e un utilizzo diverso della tassa di soggiorno pagata dai turisti che arrivano a Bologna. «L’autorecupero consiste nel permettere a chi è in affitto di accollarsi la sistemazione degli alloggi con un abbassamento del canone: in questo modo si potrebbe mettere sul mercato molto patrimonio immobiliare sfitto», spiega Luca Simoni del collettivo PLAT. Nel condominio di via Carracci gli inquilini hanno intonacato i muri, sistemato le ringhiere, le finestre, ridipinto le pareti e parte dei muri delle facciate. In merito alla tassa di soggiorno, invece, PLAT chiede che gli oltre 14 milioni incassati ogni anno dal comune siano destinati alle case popolari e non alla promozione turistica, come fatto finora: «A chi va il flusso di denaro? Per chi? Su queste domande si possono immaginare nuove mobilitazioni».