Il caso Yara, così Netflix insinua il dubbio su Bossetti: la maestra di ...

diArmando Di Landro

Bossetti - Figure 1
Foto Corriere Bergamo - Corriere della Sera

La storia ricostruita di passaggio in passaggio, con tanto materiale inedito: le immagini del matrimonio di Bossetti con Marita Comi, la maestra di ginnastica Silvia Brena, le telefonate della mamma al cellulare spento della figlia scomparsa, i video dell'anatomopatologa, il matrimonio dell'arrestato

Chissà se Massimo Bossetti recita o dice il vero, quando si dichiara innocente. Se piange a comando, come ammise di saper fare durante un interrogatorio subito dopo l’arresto, a giugno 2014, oppure se le lacrime sono spontanee. Tante, copiose, gli solcano il viso. 

Probabilmente il dubbio resterà a buona parte del pubblico dopo aver visto «Il Caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio», da martedì 16 luglio su Netflix: cinque puntate da una cinquantina di minuti ciascuna, docuserie prodotta da Quarantadue, sviluppata e diretta da Gianluca Neri (già autore di Sanpa), scritta insieme a Carlo Gabardini e Elena Grillone, con la collaborazione di Alessandro Casati, Cristina Gobbetti, Camilla Paternò. Ma è altrettanto probabile che più di un neofita del caso ne esca convinto che Bossetti è innocente, «è stato fregato».

Perché il nuovo prodotto Netflix in mondovisione (disponibile sulla piattaforma in 192 paesi) è sicuramente un grande racconto - ricco anche di materiale inedito, sulla scomparsa e il delitto di Yara Gambirasio, che aveva solo 13 anni quando sparì nel buio del 26 novembre 2010 a Brembate Sopra - ma è anche il contenitore che si annuncia potenzialmente più dirompente, vista la diffusione che avrà, delle tesi difensive. O meglio, dei diversi fronti difensivi, non solo quello degli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ma anche di tanti giornalisti, di gruppi social e interpreti dell’innocentismo che si sono affacciati al caso e anche nelle aule di tribunale. 

Contro una verità giudiziaria che parla chiaro, che ha individuato il colpevole e non «un» colpevole secondo l’espressione utilizzata in aula dalla parte civile: ergastolo in primo e secondo grado, confermato in Cassazione.

Bossetti dal carcere: «Io non so nulla»

Bossetti per la prima volta appare in video dal carcere, parla, ma non aggiunge nulla al merito del caso. Dice ciò che ha sempre detto, alimenta la linea dell’«io non so nulla», «non so perché sono qui», «non riesco a spiegarvi cosa sto passando e cosa sto provando». Viene inquadrato nel cortile del carcere, a Bollate, seduto a terra, mentre passeggia o tira calci al pallone. 

L’idea del recluso ingiustamente: «Vorrei dire al pubblico ministero (Letizia Ruggeri, ndr) che mi ha rovinato la vita». Che ricorda un tempo andato: «Io e mia sorella gemella amavamo correre nei prati a inseguire gli aquiloni, giocavamo a guardare gli aerei da lontano e prenderli chiudendo l’indice e il pollice…». Quasi uno scenario da «ali della libertà» che non possono dispiegarsi, responsabilità di chi lo vuole colpevole a tutti i costi e – dice lui – di chi ha anche provato a farlo confessare mettendogli di fronte una penna e un foglio bianco. «Ho accartocciato il foglio e l’ho lanciato». 

Bossetti - Figure 2
Foto Corriere Bergamo - Corriere della Sera
La vicenda di Ignoto 1

Tutto il resto ruota attorno di conseguenza: per esempio, i tentativi dell’accusa di far passare Bossetti come un bugiardo abitudinario, tacciati dall’avvocato o dalla moglie Marita Comi come esempio lampante di una presunta scelta, quella di costruire un mostro (nella realtà la stessa Marita era in difficoltà e aveva capito quale fosse il punto della questione: «Così viene fuori che lui dice bugie» diceva intercettata dopo aver scoperto che Massimo faceva le lampade vicino alla casa di Yara ma non aveva mai voluto dirglielo). 

Oppure, la compatibilità di Bossetti con il Dna chiamato Ignoto 1, che viene accertata dopo aver scoperto che quel profilo genetico corrisponde al figlio biologico di un padre che l’ha avuto fuori dal matrimonio, passa quasi come un elemento di ingiustizia e di pressione nei confronti dell’arrestato: «Ma che motivo aveva la pm di dirmi che non ero figlio di mio padre?». 

E poi, le migliaia di prelievi in provincia di Bergamo e non solo - un caso che ha fatto scuola sulle possibilità di utilizzo del Dna e ha alimentato il progetto, fondamentale, di una banca dati nazionale – sono una trovata che per la difesa non ha valore se poi non è possibile ripetere una verifica sul Dna con una perizia durante il processo. Peccato che il «match» tra Bossetti e Ignoto 1 ci sia stato e che Bossetti sia davvero figlio illegittimo dell’autista di Gorno morto nel 1999.

I video e le telefonate inedite

I contenuti hanno certamente una loro coerenza, non mancheranno di far discutere. Anche perché il modo in cui la serie è costruita, il materiale proposto, la fotografia, faranno da cassa di risonanza: sotto l’aspetto tecnico e artistico, della regia e della costruzione, «Il Caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio» è probabilmente il prodotto migliore mai visto su tutta la vicenda. 

Bossetti, il papà normale, il marito fedele, è l’uomo che si vede in un paio di video familiari mai pubblicati prima, quello del matrimonio con Marita Comi e quello di una vacanza in spiaggia con la famiglia. Tutte le cinque puntate corrono di continuo tra il 2010, ovvero la prima fase con la scomparsa di Yara Gambirasio e poi il ritrovamento in un campo il 26 febbraio 2011, e il 2014, dal fermo di Bossetti in poi. E sono costellati da audio che non si erano mai sentiti: Marita al telefono disperata quando polizia e carabinieri entrano in casa la prima volta: «Mi sequestrano la casa, devo fare le valigie…». Leggerlo è un conto, sentirlo dire da una voce avvolta dall'angoscia è un altro. 

Gli audio e lo strazio dei genitori 

Chi si sente, molto, nelle cinque puntate, è probabilmente chi avrebbe preferito non apparire più: i genitori di Yara, anche loro intercettati fin dai primi giorni della scomparsa della figlia. La serie propone l’audio delle telefonate della mamma al cellulare spento della figlia: «Ho tanto freddo senza di te…» è solo una delle diverse chiamate che fanno commuovere.  «Ci chiediamo quanto abbia sofferto…quanto sia rimasta cosciente» dice il papà Fulvio dopo il ritrovamento, con una delle telefonate dalle quali emerge tutta la volontà della famiglia di arrivare alla verità.

Bossetti - Figure 3
Foto Corriere Bergamo - Corriere della Sera
L'anatomopatologa Cristina Cattaneo

Parole che trasformano l’uscita di Netflix in un vero «live» su tutta la vicenda, anche con i video: per esempio i filmati che gli investigatori girano nel campo di Chignolo d’Isola quando l’anatomopatologa Cristina Cattaneo inizia le sue verifiche sul cadavere. 

Si sente la sua voce, sempre pacata, calma, in mezzo a un dramma. E a restare fuori dalle immagini è solo (ed è un obbligo) quel «corpicino», come l’hanno definito i genitori dopo aver avuto notizia del ritrovamento. Cattaneo parla quasi con delicatezza di tutta la vicenda, definisce «intimo» il rapporto che una professionista come lei stabilisce con una vittima. Parla del lavoro che ha fatto, ma dice anche qualcosa di chiaro: «Non rifaccio il processo nel documentario». 

La maestra di ginnastica e il custode della palestra

Dalla tragedia dei Gambirasio al dramma dei Bossetti, con le parole dell’arrestato che corrono anche in sottofondo alle immagini del funerale dell’adolescente di Brembate Sopra. Dal desiderio di verità di una famiglia sempre silenziosa, per precisa scelta, i Gambirasio, ai tentativi della difesa che spesso sono diventati atti d’accusa per cercare di cambiare pista, di fronte a un Dna inossidabile agli occhi dei giudici. 

Rispuntano così i sospetti, riproposti nella docuserie dagli avvocati, sulla maestra di ginnastica Silvia Brena che aveva lasciato una traccia biologica sul giubbino di Yara, oppure le incertezze e forse qualche bugia sugli spostamenti del custode della palestra. A loro la produzione dedica una scritta bianca in campo nero, a tutto schermo: «Non sono mai stati indagati». 

Su altri punti, poi , la linea difensiva è già nota da anni e su Netflix ritorna sia tramite gli avvocati sia tramite giornalisti e opinionisti che si sono occupati del caso: le celle telefoniche agganciate da Bossetti compatibili con Brembate Sopra ma anche con casa sua, le sferette metalliche o la polvere di calce sul corpo di Yara rinvenibili anche in molti cantieri della zona e non solo sul furgone del carpentiere. 

La forzatura degli investigatori sul furgone

E poi le immagini di un video diffuso dai carabinieri in cui un furgone passa spesso attorno alla palestra dove si trovava Yara: tanti di quei fotogrammi non corrispondevano all’automezzo di Bossetti, fu una forzatura degli investigatori. 

L'avvocato Salvagni ci legge la volontà di «costruire un mostro», la polemica sul punto dura da sempre. Ma ogni spunto d’indagine che la difesa ritiene di aver smentito, decostruito, dice anche altro, a partire proprio dal video in cui, in alcuni fotogrammi, il furgone che passa è invece identico a quello di Bossetti: non c’è nulla in tutto il caso, nulla nelle indagini difensive, niente di niente che possa mai rendere incompatibile il sospettato con i luoghi e con i tempi della scomparsa di Yara e del delitto. Non c’è mai uno straccio di alibi. 

La docuserie probabilmente convincerà che c’era molto altro su cui indagare, darà anche sfogo a ogni tesi al limite del complottismo. Ma il punto ultimo su cui riflettere è lo stesso che ha retto per tutto il processo: perché c’è stato un contatto tra Yara Gambirasio e Massimo Bossetti? Il diretto interessato non ha mai dato una risposta ed è in carcere da 10 anni e un mese. 

16 luglio 2024 ( modifica il 16 luglio 2024 | 18:25)

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