Il paradosso di Bruce Lee
di Michele Martino pubblicato giovedì, 20 Luglio 2023 · Aggiungi un commento
Ricorrono quest’anno cinquant’anni dalla scomparsa di Bruce Lee.
Michele Martino è in libreria da pochi giorni per 66thand2nd nella collana Vite inattese con Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago.
È passato esattamente mezzo secolo da quando Bruce Lee ci ha lasciati, il 20 luglio del 1973, in circostanze mai del tutto chiarite, nonostante un’inchiesta ufficiale istruita a suo tempo dalle autorità britanniche di Hong Kong. E da allora la sua immagine cinematografica – citata, evocata, perfino riesumata in centinaia di altri film – non ha mai smesso di affascinarci, di catturare la nostra fantasia. Il segreto della sua “presenza” continua a porci di fronte a un dilemma più irrisolvibile del mistero che avvolge la sua scomparsa.
Quando penso a Bruce Lee, mi torna sempre in mente la prima volta in cui l’ho visto, per fortuna sul grande schermo, quello del cinema teatro Reale, sala storica di Roma. Il film si intitolava, in italiano, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. In inglese, The Way of the Dragon, o anche The Return of the Dragon, perché fu distribuito in America dopo l’uscita di Enter the Dragon (I tre dell’Operazione Drago), prodotto dalla Warner, che aveva trasformato Bruce Lee in una star internazionale. In originale, il film si chiamava in realtà Meng long guojiang, “Il drago potente attraversa il mare”, con calzante allusione al viaggio dell’eroe che sbarca in Italia dalla Cina per difendere i suoi connazionali da una gang di trafficanti di droga. In ogni caso, a prescindere dal titolo, avete capito di quale film sto parlando, quello girato in parte proprio a Roma, con scorci del Colosseo e Chuck Norris nella parte del cattivo.
Mi ricordo che ero con mio padre e mio cugino. Avrò avuto otto o nove anni, non di più, e mi pare impossibile perché oggi il film è vietato ai minori di quattordici. Ma allora eravamo forse all’inizio degli anni Ottanta. Siamo arrivati a metà del primo tempo, come si usava allora, ci siamo districati tra le tende d’ingresso e siamo entrati nella sala buia. Abbiamo trovato posto in una fila vuota. Era uno spettacolo di seconda, terza, quarta o quinta visione. I sedili erano di legno. Lo schermo mi sembrava enorme, e noi lo guardavamo col naso in su. Al centro del grande telo iridescente c’era un uomo vestito di scuro, con gli occhi fiammeggianti, che allargava un braccio per invitare i suoi amici a farsi da parte. A stare indietro. Avrebbe raccolto lui, da solo, la sfida di un’intera banda di criminali.
«Vi interessa il kung fu?» diceva. «Sono qui per insegnarvelo».
Dopodiché, in controtempo sull’attacco dell’avversario, colpiva con un calcio uno sgherro un po’ sovrappeso, con la barba e l’aria strafottente. Lo stesso che un attimo prima aveva steso in quattro e quattr’otto un «lottatore cinese», sfottendolo con una risata mentre l’altro piombava nel mondo dei sogni, umiliando lui e la sua gente. I criminali avevano atteggiamenti e abiti «occidentali», due erano bianchi, due neri. A quel tempo, ovviamente, mi sfuggivano i sottintesi di quel curioso confronto etnico, così come ignoravo che quegli attori fossero angloamericani chiamati a interpretare un branco di improbabili malavitosi romani, e che tutta la scena fosse girata in studio, a Hong Kong, tra scenografie di cartapesta.
Nel frattempo mio padre aveva approfittato di un istante di pausa per sussurrare a me a mio cugino che il tizio vestito di scuro con gli occhi fiammeggianti era Bruce Lee. Nel film si chiamava Chen. E lui un attimo dopo ruotava su sé stesso con una gamba al cielo per colpire di nuovo il malcapitato di prima, che crollava a terra come un sacco di patate.
Gli amici di Chen, camerieri di un ristorante cinese e maldestri praticanti di karate, erano felicissimi che lui li avesse difesi. Qualche scena più tardi, Bruce Lee dava a tutti loro un saggio delle sue abilità, sempre lì sul retro del ristorante, in mezzo ai fondali dipinti. Uno dei suoi amici, per proteggersi, si aggrappava a un grosso cuscino imbottito.
Chen lo fissava per una frazione di secondo, si bilanciava sulle gambe e poi partiva in avanti, assestando un calcio devastante al centro del cuscino. Il tipo che lo abbracciava finiva per essere scaraventato, al rallentatore, dopo un volo orizzontale di un paio di metri, contro una pila di scatole di cartone che gli crollava tutta addosso.
«Ti prego, Chen, fammi un favore,» esclamava allora il capocameriere, il più goffo e pingue del gruppo «insegna anche a me a tirare calci».
«Ehi,» lo rimbeccava un compare «non hai detto una volta che l’esercizio fisico non serve a niente?».
«Ma io mi riferivo al karatè giapponese. Questa è roba cinese».
L’altro a quel punto sembrava convinto, perché si toglieva la giacca dell’uniforme da karate e diceva agli amici: «Beh, ragazzi, abbandoniamo anche noi il karatè, e prendiamo lezioni da Chen. Impariamo il kung fu».
A quel tempo, naturalmente, ero troppo piccolo anche per cogliere le sottigliezze di un dialogo del genere, le frecciate ai rivali giapponesi, la retorica del nazionalismo cinese. Per me il messaggio era solo uno: il kung fu è un’arte marziale superiore a tutte le altre e Bruce Lee il più grande combattente sulla faccia della Terra.
Non potevo sapere però che nella realtà Bruce Lee non avrebbe mai combattuto in quel modo. Né potevo immaginare che “kung fu” era solo un’espressione – per alcuni impropria – che racchiudeva una miriade di stili di combattimento diversi, oltre quattrocento. Né che le mosse che avevo ammirato sullo schermo potevano chiamarsi “kung fu” solo di nome, per comodità, ma somigliavano semmai al tae kwon do coreano.
Non sospettavo nemmeno che quel personaggio vestito di scuro con gli occhi fiammeggianti nella versione originale non si chiamava Chen, un nome facile usato per il doppiaggio italiano, ma Tang Lung. Né potevo sapere che Tang è il nome di una delle dinastie imperiali cinesi, e come tale può significare anche Cina, la quale toccò il suo apogeo proprio durante i secoli di dominio della dinastia Tang. Mentre Lung è la trascrizione della pronuncia cantonese del termine “long”, che in mandarino vuol dire “drago”, il nome d’arte di Bruce Lee.
Non potevo sapere, infine, che lo stesso Bruce Lee aveva scritto di persona il copione del film, e probabilmente ci aveva infilato quelle battute sull’inferiorità del karate solo per compiacere il pubblico di Hong Kong, cui la pellicola era inizialmente destinata.
«Non credo più negli stili» aveva detto infatti in una celebre intervista televisiva, con Pierre Berton, nel 1971, circa un anno prima dell’uscita del film. «Non credo che esista qualcosa come un sistema di combattimento cinese, o un sistema di combattimento giapponese, o un qualsiasi altro sistema di combattimento». E ancora: «Gli stili tendono a separare gli uomini, perché hanno le loro dottrine, e la dottrina diventa il vangelo, che nessuno può più cambiare. Ma se non hai uno stile, puoi dire: Eccomi qui, come essere umano, come posso esprimermi in modo totale e completo?». A quel punto Berton gli aveva chiesto: «Pensi ancora a te stesso come a un cinese, o ti consideri un nordamericano?». E lui, ribadendo il concetto, aveva risposto: «Sai come penso a me stesso? Come a un essere umano».
L’intervista di Bruce Lee al Pierre Berton Show
Bruce Lee era nato con un doppio nome – l’altro era Li Jun Fan – nel 1940 nella Chinatown di San Francisco, da genitori cinesi, lui un artista dell’opera cantonese in tournée negli Stati Uniti, lei una donna eurasiatica con sangue inglese, russo o forse olandese nelle vene. A sei mesi era stato portato a Hong Kong, dove aveva vissuto un’adolescenza scapestrata, aveva fatto parti e particine in una ventina di film, col nome di Li Xialong (“il Piccolo Drago Li”), e iniziato a studiare il wing chun, allora uno dei più oscuri stili di kung fu. A diciott’anni era stato rispedito in America, emigrante solitario, anche se munito di passaporto americano, che bisognava confermare sottoponendosi alla visita di leva obbligatoria. Era rimasto qualche anno confinato a Seattle, creandosi un piccolo seguito di allievi, poi si era sposato e trasferito a Oakland, dall’altra parte della Baia di San Francisco.
Più tardi era sceso ancora più a sud, a Los Angeles, per inseguire il sogno di sfondare a Hollywood, lui che era cresciuto calcando le scene dei teatri e dei set sulle orme del padre. Ma in California i ruoli scarseggiavano per un cinese. Così, all’inizio degli anni Settanta, era tornato a Hong Kong, per trasformarsi nella star più luminosa del cinema asiatico. E quel successo insperato lo aveva catapultato di nuovo a Hollywood, dove era stato scritturato dalla Warner per la prima produzione sino-americana della storia, diventata poi il più grande blockbuster sulle arti marziali mai realizzato. Ma poche settimane prima dell’uscita dei Tre dell’Operazione Drago, Bruce Lee era morto all’improvviso, a soli trentadue anni, nella camera da letto di un’attrice taiwanese di nome Betty Ting Pei, la sua amante. Dopodiché era stato sepolto a Seattle, per volere della moglie Linda, che desiderava averlo vicino a sé e ai sui figli, ancora bambini.
Credo bastino queste scarne indicazioni biografiche per capire come Bruce Lee non possa essere circoscritto in un singolo luogo, in un solo Paese, ma sia piuttosto una figura transnazionale, transpacifica, sospesa tra due culture e due continenti, capace di gettare un ponte tra di essi e unire tradizioni diverse.
Tutta la sua carriera, la sua ricerca è stata vissuta all’insegna del tentativo di superare le barriere etniche, stilistiche, geografiche, di spogliarsi dei rituali, delle forme codificate, di dimenticare tutto ciò che ci divide, alla ricerca di una verità intima, della nostra essenza, nel momento presente; cioè, nel suo caso, nelle condizioni concrete di un combattimento, inteso come una via per la realizzazione e la conoscenza di sé.
Non è un caso che l’epigrafe sulla sua tomba, voluta dai suoi vecchi allievi, reciti: “Il tuo esempio continua a guidarci verso la nostra personale liberazione”. Come non è un caso che la prima statua al mondo in onore di Bruce Lee sia stata edificata a Mostar, in Bosnia-Herzegovina, dilaniata durante la guerra nella ex Jugoslavia dall’ostilità tra croati cattolici e bosniaci musulmani. Dopo la fine del conflitto, la città aveva deciso di erigere un memoriale di pace, dedicato a un simbolo di solidarietà, giustizia e armonia razziale. Alla fine la scelta cadde su Bruce Lee, dopo che erano stati scartati candidati più che qualificati come Gandhi o il papa, perché era l’unica figura su cui si trovavano tutti d’accordo.
La domanda che tutti si pongono è: ma Bruce Lee sapeva davvero combattere, era davvero bravo come i suoi personaggi sullo schermo, o era solo un attore capitato al posto giusto al momento giusto? Uno sbruffone, un gradasso, un ciarlatano col physique du rôle e qualche tecnica imparata alla bell’e meglio? È stato proprio lui a lanciare il fenomeno delle arti marziali o, al contrario, ha approfittato della loro diffusione in Europa e in America?
Forse proprio per rispondere a questa domanda ho scelto di dedicargli una biografia completa, Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago, che ne ricostruisce il viaggio, il continuo andirivieni da una parte all’altra dell’oceano, tra Hong Kong e la West Coast americana, sulla base delle tante testimonianze di amici, familiari, allievi e colleghi emerse negli ultimi anni. Considerate però una cosa. C’è una scena, verso l’inizio del film citato in apertura, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, in cui Lao-Shan, la proprietaria del ristorante cinese, chiede al cugino Chen, ovvero Tang Lung, insomma al personaggio interpretato da Bruce, se a Hong Kong ci siamo ancora i nightclub alla moda. Chen le risponde che non lo sa, perché lui viene dalla campagna (cioè dai Nuovi Territori, l’appendice peninsulare e rurale di Hong Kong). L’unica cosa di cui mi intendo, aggiunge Chen, sono… «le nobili arti marziali». Nella versione inglese, che corrisponde più o meno all’originale cinese, dice «and every day I practice martial arts». Ebbene, secondo Paul Bowman, autore di alcuni saggi interessantissimi sulla figura del Piccolo Drago, questa è la prima attestazione accertata dell’espressione “martial arts” nella lingua inglese. In precedenza, nelle rare occorrenze, era usata solo in riferimento a contesti bellici, militareschi, all’addestramento dei soldati, mentre il termine “karate” serviva a indicare genericamente il concetto di “arti marziali” così come lo intendiamo oggi.
Nel film successivo, I tre dell’Operazione Drago, l’espressione sarebbe stata menzionata ancora due volte, non da Bruce, da altri personaggi, ma curiosamente nelle scene “aggiunte” da Bruce al copione, e sarebbe finita poi nel celebre banner che accompagnava la locandina del film: “Il primo spettacolo di arti marziali prodotto in America!”.
Insomma, prima di Bruce Lee e dei suoi film, almeno in Occidente, non esisteva nemmeno l’idea delle arti marziali, con il loro suffisso implicito “asiatiche”, a indicare dunque l’insieme delle tecniche di combattimento e di autodifesa provenienti dall’Asia, che è la definizione che trovate nella maggior parte dei dizionari anche italiani.
Il paradosso in tutto questo è che Bruce Lee, nel corso della sua vita, ha sempre scelto di criticare la tradizione millenaria delle arti marziali, con le sue forme stilizzate, i suoi rituali pittoreschi, attaccando senza riguardo i venerati maestri delle varie Chinatown americane. Eppure, nonostante la sua esplicita dissidenza, è riuscito a incarnare al più alto livello possibile e immaginabile proprio i valori di quella tradizione, di cui ha saputo cogliere l’essenza, di cui aveva compreso – sulla sua pelle, nei suoi nervi, attraverso l’esperienza – i princìpi di fondo, senza affidarsi ciecamente a una dottrina, a uno “stile”, a una liturgia vuota che di fronte a un vero avversario gli sembrava solo d’impaccio.
Il primo provino di Bruce Lee
Di paradosso ce n’è anche un altro, tuttavia, che mi è saltato agli occhi mentre chiudevo il mio libro. Parafrasando D.F. Wallace, ormai un cliché di qualsiasi discorso su letteratura e intelligenza cinestetica, provo a elencare i miei cinque “Bruce Lee Moments” (e intendo per “momenti” qualcosa di più esteso temporalmente di un singolo gesto tecnico – cioè, nel nostro caso, di un calcio rotante o un pugno sul naso). Eccoli, in ordine cronologico:
1) il provino di Bruce per William Dozier nel febbraio del 1965;
2) i primi quaranta minuti di The Big Boss (Il furore della Cina colpisce ancora, 1971);
3) l’intervista con Pierre Berton nel dicembre del 1971;
4) la sequenza di apertura di Fist of Fury (Dalla Cina con furore, 1972);
5) la scena sull’“arte di combattere senza combattere” in I tre dell’Operazione Drago (1973).
Qual è il tratto comune a tutti questi momenti? Il fatto che Bruce Lee non combatte, appunto. Si sottrae allo scontro fisico, oppure non è nemmeno chiamato a mostrare le sue abilità, ma solo a conversare amabilmente con l’interlocutore di turno. È il segreto della sua “presenza”, di quell’energia trattenuta che irradia da sé, il potenziale inespresso che fa vibrare il suo corpo anche quando è immobile: il segreto del suo fascino di attore, incardinato in quegli stessi princìpi che hanno reso Bruce Lee il più formidabile esponente al mondo delle arti marziali. Di cui, a cinquant’anni dalla morte, ancora sentiamo terribilmente la mancanza.
Michele Martino è nato e vive a Roma. Lavora da oltre dieci anni come editor e traduttore letterario, dopo aver fatto diverse esperienze in teatro, in tv e nel cinema. Per 66thand2nd ha pubblicato Il favoloso Doctor J (2022), sulla vita del cestista Julius Erving, e Bruce Lee (2023). Ha tradotto, fra gli altri, Robert Penn Warren, Salvatore Scibona, Violet Kupersmith, Ashleigh Bryant Phillips, Hadley Freeman, John Woods, A. Igoni Barrett, George Plimpton.