"Everything Everywhere All at Once" ha sorpreso tutti

13 Mar 2023
Everything Everywhere All at Once film recensione oscar

La vita di Evelyn Quan Wang è sull’orlo di una crisi irreparabile. I suoi sogni di gloria sono andati in fumo sotto l’impegno di una lavanderia a gettoni che le occupa – letteralmente – ogni angolo di vita, l’inetto marito pensa al divorzio, il rapporto con la figlia è ormai del tutto deteriorato e il giudizio del severo padre in arrivo dalla Cina rende il tutto ancora più difficile. Durante una catastrofica visita all’agenzia delle entrate, viene contattata da Alpha Waymond, la versione di suo marito proveniente dall’universo Alpha, e scopre che a ogni scelta presa da ognuno di noi corrisponde la nascita di un universo alternativo. 

La sua controparte proviene da quella peculiare variazione della realtà che ha sviluppato una tecnologia grazie alla quale è possibile collegarsi ai ricordi e alle abilità di una qualsiasi variazione di se stessi. Il potenziale inespresso di Evelyn – l’unica Evelyn di tutte le infinite variazioni possibili ad avere sbagliato praticamente tutto – la rende l’unica speranza di salvezza dell’intero Multiverso, minacciato dalla furia di Jobu Tupaki.

Parlare di Everything Everywhere all at Once di Daniel Kwan e Daniel Scheinert senza allargare il discorso a quanto realizzato in questi anni da A24 è praticamente impossibile. La casa di produzione newyorkese è riuscita, in meno di dieci anni di esistenza, a sviluppare un’identità fortissima e subito riconoscibile. Nonostante in questa decade abbia finanziato e distribuito ogni genere di lungometraggio – pensiamo a come possano essere diversi tra loro i lavori di Yorgos Lanthimos, Greta Gerwig e David Lowery – è con l’horror che A24 ha incontrato il vero riscontro di un pubblico più vasto. Anzi, con il cosiddetto “elevated horror” per essere precisi. 

Etichetta giusto un filino antipatica che gli viene affibbiata dalla critica statunitense e che ben si presta per definire un filone cinematografico che partiva dai vari Babadook di Jennifer Kent e It Follow di Robert Mitchell ma trovava pieno compimento da quanto fatto da un gruppo di registi in cui compaiono, tra gli altri, Robert Eggers, Ari Aster, Jeremy Saulnie, Alex Garland e Ti West. Tutti autori dotati di un’estetica forte e di una componente autoriale prevaricante rispetto al genere di partenza. Questo significa mandare in sala film carichi di tensione quanto ogni horror dovrebbe essere, ma al contempo ammantati da un’aura da film importante fatta di ritmi sincopati, astrusi simbolismi e atmosfere da saletta cinematografica off più che multisala.

Ovviamente un’identità simile ha al contempo garantito tanta stima nei confronti dei responsabili di A24 – tra i pochi in grado di portare il cinema di genere nei salotti buoni della critica più difficile – e altrettanta ritrosia per via della evidente spocchia delle loro produzioni. Un gioco rischioso, ma che evidentemente ripaga con incassi e collaborazioni sempre più importanti. Hereditary di Ari Aster ha incassato più di 80 milioni di dollari, Moonlight di Barry Jenkins ha vinto tre Oscar (tra cui quello per miglior film), Uncut Gems di Josh e Benny Safdie ha superato i 50 milioni al botteghino ed è stato distribuito in tutto il mondo da Netflix, mentre le collaborazioni con Apple TV sono diventate sempre più frequenti. 

Poi è arrivato Everything Everywhere all at Once e ha portato tutto su un altro livello. Se il cinema fantastico pare dominare il botteghino degli ultimi anni – tra supereroi, saghe stellari, gente che va nello spazio in automobile e così via – A24 ha voluto partecipare alla festa a modo suo e ci è riuscita con un film non certo perfetto, spesso pesante e un poco bolso, ma eppure carico di un carisma e di un’inventiva come non se ne vedeva da tempo. E in grado di incassare oltre cento milioni di dollari praticamente solo con il passa parola. 

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Everything Everywhere all at Once è la controparte elevated fantasy/sci-fi di quanto fatto da A24 in ambito horror. Prende un concetto abbastanza comune come il multiverso – in questi anni incidentalmente molto popolare proprio al cinema – e ne approfitta per muoversi in due direzioni. Da una parte una festa visiva e di idee che riporta il genere a quel tipo di ingegno iconico soffocato da anni di polpettoni televisivi in stile Marvel, dall’altra c’è la pretesa di raccontare qualcosa di importante e profondo

Al di là del risultato – buono preso di per sé, fuori scala se lo si confronta con quello che troppo spesso abbiamo visto al cinema negli ultimi anni – i Daniels se ne sono usciti con un lungometraggio sorprendente e pieno di idee straordinarie, ma forse troppo innamorato di se stesso. Non ce ne vogliano i fanatici di A24, ma sarebbe disonesto soprassedere sulla lunghezza davvero eccessiva e sulla pesantezza di certi passaggi. Eppure, al netto di queste sbavature, è incredibilmente corroborante uscire dalla visione di un film dove si alternano senza soluzione di continuità riflessioni esistenzialiste e gag su plug anali improvvisati.

Per quanto furba e ruffiana la visione del cinema dei Daniels possa essere, si distacca di misura del piattume da green screen a cui ci stiamo abituando. L’impressione è quasi quella di un ritorno a quegli anni dorati in cui il linguaggio visivo commerciale era in mano al triumvirato composto da Michel Gondry, Spike Jonze e Chris Cunningham e ogni loro uscita – spot televisivo o videoclip musicale che fosse – era atteso come un autentico evento. A questi tre giganti è legittimo affiancare altri visionari come Jonathan Glaser, Mark Romanek e Tarsem Singh. Molti di questi sono ancora attivi, anche nel cinema, ma è indubbio che qualcosa di quegli anni sia andato perduto. 

Questioni di budget, certo, ma anche la voglia di rivoluzionare i parametri estetici a ogni uscita è andata scemando. Anestetizzati da anni di cinema senza visione cinematografica o di un’estetica finto povera come quella a cui ci ha abituato il web, si rimane sorpresi e storditi dal flusso di trovate in cui ci immerge Everything Everywhere all at Once nei suoi momenti più ispirati. Nelle sue oltre due ore di lunghezza sono disseminate diverse accelerazioni – letterali – dove succede davvero di tutto. Il viaggio tra multiversi, le scene action, le apparizioni di Jobu Tupaki. Perfino la trasposizione letterale di un goffo gioco di parole che dubito non strappi una risata a chiunque. 

Per quanto belle e sentite siano le riflessioni sull’amore e sull’importanza della propria esistenza, la vera forza di Everything Everywhere all at Once sta proprio in questi momenti di anarchismo visivo, arricchiti da un’attenzione estetica certosina nel raccontare sfruttando ogni singolo mezzo del cinema. Pensiamo alle prime scene, quando siamo ancora ignari della svolta sci-fi che il tutto prenderà a breve, e a come sia resa l’abitazione della protagonista. Un gran casino, nel quale tutto è stipato dove non dovrebbe e a un passo dalla perdita totale di controllo. Senza dire niente di esplicito abbiamo già tutti gli strumenti per capire in quali condizioni precarie sia la sua condizione mentale.

Come se queste attenzioni registiche non fossero sufficienti ci sarebbe da fare una menzione d’onore anche per il parco attoriale. Michelle Yeoh è, semplicemente e senza mezzi termini, una leggenda del cinema d’azione. Una che esordisce al cinema in un film di Sammo Hung e nel giro di qualche anno riesce a lavorare con praticamente qualsiasi regista che abbia contribuito a rendere la cinematografia di Hong Kong la rivoluzione enorme che è stata. Per quanto mi riguarda merita di essere menzionato almeno il dittico urban fantasy composto da The Heroic Trio ed Executioners, diretti da un Johnnie To come al solito fuori parametro. Resa celebre a livello internazionale da La tigre e il dragone, in Everything Everywhere all at Once dimostra carisma infinito e una capacità di adattarsi a praticamente ogni sfumatura richieda un copione iperbolico e multiforme come questo. Eccola così piccola imprenditrice sull’orlo del lastrico, superstar, artista marziale e salvatrice nell’universo. Spesso tutto contemporaneamente. 

A farle da spalla una Jamie Lee Curtis evidentemente entusiasta del progetto e che ci mette tutto il cuore possibile. Completano il cast James Hong, caratterista la cui lista di film in cui è apparso fa spavento, e la brava Stephanie Hsu, direttamente da La fantastica signora Maisel. Nei panni dell’inetto marito della protagonista invece troviamo, come penso sappiano praticamente tutti, Ke Huy Quan, noto ai più come Shorty/Data. Uno dei volti simbolo del cinema fantastico anni Ottanta, che tutti speriamo riesca a rilanciarsi definitivamente. Anche qui qualche furbizia: alla fine se metti nei panni di uno spietato Alpha Gong Gong lo stregone malvagio di Grosso guaio a Chinatown la strizzatina d’occhio la cerchi per forza di cose, ma anche tanto talento nobilitato come dovrebbe essere sempre fatto.

La bolla attorno al lungometraggio di Daniel Kwan e Daniel Scheinert ha finito, con il passare dei mesi, per gonfiarsi forse più del dovuto. Si tratta di ottimo cinema, ma non certo del capolavoro che troppi cercano di venderci. Semplicemente, considerata la situazione desolante delle sale cinematografiche degli ultimi anni, trovarsi ad avere a che fare con un’opera originale, scritta e girata con ingegno e con in più qualcosa da dire è un’esperienza che non siamo più abituati a fare. E allora ben vengano tutti gli Everything Everywhere all at Once del caso.

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