Antonella Clerici operata alle ovaie, la dottoressa Bonifacino ...

9 giorni ago
Clerici

Antonella Clerici ha raccontato di essere stata operata d'urgenza alle ovaie dopo un semplice controllo di routine. In un post su Instagram, la conduttrice ha pubblicato una foto dal letto dell'ospedale, in cui fa il segno della vittoria per tranquillizzare i suoi sostenitori. Ha espresso un sentito ringraziamento a tutto lo staff medico che l'ha seguita, con una menzione particolare per la dottoressa Adriana Bonifacino, oncologa Responsabile della Senologia clinica all'IDI-IRCCS di Roma. «Adriana Bonifacino è stata sempre al mio fianco con dolcezza, fermezza, competenza e affetto», ha scritto la Clerici.

Le polemiche social

Non sono mancate le polemiche, con alcuni utenti che hanno sollevato dubbi sulla rapidità dell'intervento ricevuto da Antonella Clerici. Un utente ha scritto: «Con una persona comune non sarebbe andata così velocemente».

A queste critiche, la dottoressa Bonifacino ha risposto con fermezza: «Per quanto mi riguarda non è così. Sono 45 anni di lavoro e posso assicurarle che c'è molta buona sanità pubblica. Ammetto che ci siano difficoltà, ma ho sempre lavorato in ospedali e ambienti pubblici da 44 anni. Antonella ne parla e parla al cuore delle persone. Ma tanti altri e certamente non per me potrebbero farlo. Noi ci siamo».

La dottoressa Adriana Bonifacino

La dottoressa Bonifacino è tornata sulla discussione nata sotto il post di Antonella Clerici, a proposito dell'inefficienza del Sistema Sanitario Nazionale. Adriana Bonifacini è senologa, oncologa e autrice di numerose pubblicazioni scientifiche. Nel 2008 è presidente della fondazione "IncontraDonna", un'organizzazione no-profit che persegue il diritto alla salute e promuove la prevenzione oncologica.


Sotto al post Instagram di Antonella Clerici diversi utenti hanno risposto commentando che «con una persona comune non sarebbe andato tutto così velocemente». È vero?

«Quando sento dire "Io sono in lista d’attesa da mesi", spesso è perché si parla di interventi non urgenti come un'ernia o il menisco. Ci sono delle leggi regionali per le quali un paziente che ha determinate patologie, ad esempio oncologiche, o c'è anche solo il sospetto che le abbia, non può aspettare più di 30-40 giorni dal momento della diagnosi all'operazione. Con il Covid i tempi si sono un po’ allungati, ma c’è stata una pandemia. Quindi per certi problemi non ci sono liste d'attesa così lunghe, poi è chiaro che se una persona ha un'assicurazione e decide di operarsi dopo due giorni in un ospedale privato è libero di farlo. Sono moltissime le persone in Italia, vip e non, ad avere un'assicurazione sanitaria, non c'è nulla di male».

Il nostro Sistema Sanitario Nazionale versa in condizioni così critiche come spesso si dice?

«La prima cosa da dire è che noi in Italia abbiamo un Sistema Sanitario Nazionale universalistico, tant'è vero che siamo tra i pochi a prendere in carico immigrati in condizioni d'urgenza e curarli in ospedali pubblici. Accogliamo anche persone che vengono da posti come l'Albania, dove la chemioterapia è a pagamento. Basta avere il tesserino STP e si ricevono le stesse identiche cure di un cittadino italiano. Quindi anche se abbiamo poche risorse non diciamo di no a nessuno. Al di là dei diversi governi che si sono susseguiti, è evidente che ci sono delle difficoltà, ma non è tutto nero come spesso viene descritto e anche le istituzioni dovrebbero fare di più per informare meglio i cittadini.
Faccio un paio di esempi. Nel Lazio, esiste il fascicolo sanitario elettronico e il portale smart per le prenotazioni, un servizio che funziona molto bene. Perché, nonostante questo, abbiamo un tasso di adesione agli screening pubblici (pap test, sangue occulto nelle feci) che continua a scendere? Per carità è vero che si può migliorare per quanto riguarda la digitalizzazione e la lotta alla "tossicità burocratica", ma resta il fatto che ogni semplice cittadino, sul portale della propria regione, può prenotarsi gli screening nel giro di 10-15 giorni. Le persone si lamentano, spesso alimentati da determinati programmi tv, ma poi evitano screening e vaccini.
Un altro esempio riguarda la Calabria. Da quando il prof. Capalbo è direttore del reparto di oncologia dell'università di Cosenza, in 6 mesi ha aumentato del 131% il numero di visite oncologiche e ha portato le liste d’attesa da 40 giorni a 6. Perché di questo non si parla mai? Non lo accetto. Sono tanti i bravi medici a servizio della sanità pubblica. Spesso dal Sud ci si sposta a Roma o al Nord, subito dopo aver ricevuto la diagnosi: cerchiamo di andare in controtendenza, anche nel Meridione ci sono eccellenze mondiali».

Quanto è importante la prevenzione?

«Ci sono degli screening che vanno fatti e che servono a intercettare le patologie più frequenti come il cancro alla mammella nella donna (che nel 2% dei casi colpisce anche l'uomo), il pap test e la vaccinazione Hpv, l'esame del sangue nelle feci per il colon retto. Sono tutti gratuiti e adesso l'Europa ci chiede di allargare ad altri esami come gli screening per il tumore della prostata (test PSA dai 50 anni, 40 se c’è familiarità), tumore dello stomaco e tumore del polmone. Il Regina Elena a Roma fa screening gratuito sui fumatori (programma RISP), ma la gente non aderisce».

Per quanto riguarda i problemi alle ovaie, c'è qualche campanello d'allarme a cui stare attenti? Che tipo di prevenzione si può fare?

«L'ovaio è un organo particolarmente nascosto che difficilmente dà sintomi. Una persona sana non deve fare una visita ogni 3 mesi, quindi c'è tutto il tempo per prenotare. I controlli possono essere prenotati anche un anno per l'altro, la prevenzione si può programmare prima, basta organizzarsi. La visita ginecologica e l'ecografia pelvica transvaginale servono a evidenziare problemi che coinvolgono le ovaie.
C'è chiaramente un'età in cui si è più a rischio: le donne over 50 devono fare controlli regolari. Bisogna pubblicizzare anche il rischio legato a famigliarità: ci sono test che si fanno nelle famiglie con casi di tumori al seno, all'ovaio, al pancreas, allo stomaco e alla prostrata, che potrebbero indicare una stessa mutazione. Queste famiglie vengono osservate con programmi pubblici. Le persone devono chiedersi cosa hanno avuto e cosa è successo nelle loro famiglie. C’è ancora un gap culturale che porta la gente a pensare "io a mio figlio non glielo dico che ho avuto tumore": malissimo, si fa un danno e si toglie la possibilità di comprendere che tipo di prevenzione fare».

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