Cosa resta di Alessandro Diamanti, o della nostalgia

24 Apr 2023

Ora che Alessandro Diamanti ha annunciato su Instagram il suo addio al calcio, mi sono chiesto chi fosse colui che all’apparenza potrebbe sembrare solo un eccentrico trequartista toscano dalla carriera frammentata in 17 squadre. Riccioli e fantasia, sorriso e tatuaggi, calci di punizione e sfacciataggine. Lo ammette: «Non sono stato un giocatore da cento trofei, ma sono stato un giocatore che si è sentito amato da chi mi ha seguito, per oltre vent’anni». Sono 23, per amor di precisione, come il numero di maglia che Diamanti ha indossato più spesso in carriera. A Livorno, in Cina al Guangzhou, a Bergamo, a Bologna e Palermo dov’è stato capitano. Lo veste pure ora in Australia a Melbourne, in quella che è la piazza a cui temporalmente è più legato: 4 stagioni di fila. Non la squadra con cui Diamanti ha giocato più spesso (quella è il Livorno), ma pur sempre un risultato ragguardevole tenendo conto che "Alino", com’è soprannominato, ha messo piede sull’isola dei canguri a 36 anni. Ora saluta, e in tutto questo ho capito chi sia stato davvero Diamanti, e perché due fotogrammi dicano molto - forse tutto, per me - di lui.

kiev, ukraine june 24 alessandro diamanti of italy celebrates scoring the winning penalty during the uefa euro 2012 quarter final match between england and italy at the olympic stadium on june 24, 2012 in kiev, ukraine photo by laurence griffithsgetty images

Laurence Griffiths

Il 24 giugno 2012, la Madre Patria di Kiev si trova qualche chilometro a est dallo stadio Olimpico di Kiev e non indica ancora l’avanzata russa proveniente proprio da quel lato. Alessandro Diamanti dista poco più di undici metri da Joe Hart. Indossa la maglia numero 22 della Nazionale italiana. Fa qualche passo, poi calcia col sinistro il suo calcio di rigore. Hart si tuffa alla sua sinistra, quindi alla destra di Diamanti, che apre le mani e raccoglie l’abbraccio di tutti. Ci sono Bonucci e Maggio, Pirlo e Balotelli. Un’onda azzurra ricopre Buffon, che tu riconosci, indossa un completo verde. L’Italia ha appena battuto ai calci di rigore l’Inghilterra – buffo che undici anni dopo sarebbe successo di nuovo, ma in finale dell’Europeo – e s’è qualificata alla semifinale, dove batterà eroicamente la Germania con doppietta di Supermario Balotelli prima di uscire triturata, sempre allo stadio Olimpico di Kiev, dalla Spagna del Bosque. All’Europeo 2012 Diamanti non è un titolare, ma la riserva di Antonio Cassano, cui subentra tre volte: quella sera, con l’Inghilterra, Alessandro gioca 42 minuti e calcia il rigore più pesante, che – dopo gli errori degli Ashley inglesi, Young e Cole – decide la partita.

L’Italia perde 4-0 la finale dell’Europeo 2012 – una delle finali più nette di cui io abbia memoria, anche se gli spagnoli avevano avuto un giorno extra di riposo –, ma si qualifica comunque alla Confederations Cup del 2013, che si gioca in Brasile. Supera il girone, ma perde in semifinale contro la Spagna ai rigori, con errore decisivo di Leonardo Bonucci che dichiarerà: «Calcerò rigori per un anno, non voglio mi ricapiti più qualcosa di simile» (ironicamente, ha segnato il suo l’11 luglio 2021, nella finale dello scorso Europeo). Questo per dire che all’Italia non resta che la finalina, per il terzo posto, contro l’Uruguay di Forlán, Cavani e Suárez. Così, domenica 30 giugno 2013, Alessandro Diamanti è titolare, in un tridente con Gilardino ed El Shaarawy. Calcia due punizioni, entrambe col sinistro. La prima colpisce il palo, poi la schiena di Muslera ed è deviata in rete dal compianto Davide Astori. La seconda supera la barriera celeste e rappresenta l’unico gol segnato da Diamanti con la Nazionale italiana, in 17 presenze. Poi però segna ancora Cavani, si va ai rigori e qui Diamanti non c’è (l’ha sostituito Giaccherini). Ma l’Italia vince e tutti sono contenti, almeno per ora.

Quel che resta della carriera di Alessandro Diamanti è un viaggio di 17 tappe. C’è tanta Toscana: Prato città (dov’è nato e per cui fa il tifo) e Prato frazione (Santa Lucia), dove prima di lui giocarono Pablito Rossi e Bobo Vieri. Ci sono Empoli e la Serie D a Fucecchio, una squadra che prende il nome da una fabbrica di fiammiferi. C’è il Livorno dell’imprenditore marittimo Aldo Spinelli. Ci sono le due facce di Firenze (Florentia Viola e Fiorentina) e ci sono le due facce di Bergamo, Albinoleffe e l’Atalanta di Gasperini. Ci sono un anno in Erasmus a Londra, al West Ham di Gianfranco Zola, come c’è un gol da cineteca alla Juventus e la prima convocazione di Diamanti in Nazionale, arrivata all’indomani. Ci sono piazze storiche, Brescia e Bologna, un anno in Cina al Guangzhou Evergrande allenato da Marcello Lippi, il ritorno in Italia e il ritorno in Inghilterra (al Watford della famiglia Pozzo). Palermo e Perugia. Ci sono 24 punizioni, emblema di un calcio d’antan, scandito dalla popolarità in declino del Televideo, dalle minuziose radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dagli spettacolari highlights di 90° Minuto sulla Rai e dalla conduzione pacata di Franco Lauro. Un calcio che forse ci manca: «Manca il contatto con la gente. Troppi schemi, pochi giocano col cuore. L’emozione non è un gol all’incrocio, ma è trascinare uno stadio», aveva detto Diamanti in un’intervista alla Gazzetta. Ecco cos’era.

Matteo Albanese Classe 1997, genovese e genoano (pure non in quest'ordine), ha studiato a Savona spaziando tra il giornalismo e la SEO.

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