Elena Di Cioccio: «Sono sieropositiva da 21 anni. L'ho nascosto per ...
di Chiara Maffioletti
L’attrice e conduttrice racconta la sua esistenza nel libro «Cattivo Sangue», in uscita: dagli abusi, alle botte, alla morte del fratellino di tre anni fino al suicidio della madre
Per ventuno anni è stato un segreto, pesante come un macigno. Ora Elena Di Cioccio, attrice, conduttrice in radio e in tv, ha deciso di liberarsi del fardello che l’ha costretta, per non finirne schiacciata, a diventare nel tempo mille persone, tutte diverse da quella che lei è davvero. Per stare finalmente bene, era necessario raccontare la sua verità: «Ho 48 anni e da 21 sono sieropositiva. Ho l’Hiv». Lo ha detto alle «Iene», di cui per anni è stata un’inviata. Lo racconta senza il minimo sconto, nel libro in uscita il 4 aprile, Cattivo Sangue (edito da Vallardi), in cui ricapitola una vita clamorosamente fitta di sfide e dolori. «Oggi non ho rimpianti e non sono più arrabbiata. Ma ho dovuto processare molte cose», spiega.
Per quasi metà della sua vita ha cercato di nascondere il fatto di avere l’Hiv. Ora ha deciso di renderlo pubblico, scrivendoci anche un libro. Perché?
«Dopo anni passati divisa tra la paura e la rabbia, non mi sento più in difetto di niente. Io sono questa cosa qui e non voglio più nascondermi. Quando incontro ogni singola persona mi domando se, come e quando dire che sono sieropositiva: lasciando la mia parola scritta ora lo do per fatto, una volta per tutte».
In questi anni, scrive nel libro, ha nascosto le medicine nel frigo dietro la lattuga perché nessuno le vedesse, confidando il suo segreto solo a pochissime persone.
«E ho sperimentato ogni tipo di reazione in risposta a questa cosa: fuga, compassione, rabbia. Ma il problema è la partenza, non la risposta: è come sto io rispetto a questa cosa. Oggi un aiuto arriva grazie alla medicina che ha fatto finire l’epoca dell’alone viola, della paura, sia per voi ma anche per noi».
In che senso?
«Quindici anni fa: mi taglio la mano in una classe di teatro, esce del sangue. Si avvicinano per aiutarmi e io urlo: “No, non mi toccate”. Cavolo che brutto carattere. Oggi processare questa gigantesca marea di emozioni è possibile grazie a quello che la medicina ci dice, e cioè che siamo pazienti cronicizzati e in nessun modo io posso contagiare qualcuno. Per me è un sospiro di sollievo: non devo più stare sempre in allerta».
Eppure, dice, su questa malattia persiste lo stigma.
«Purtroppo sì, perché la comunicazione si è fermata al 1989: abbiamo fatto dei passi in avanti con quattro baci e strette di mano passate e poi il nulla. Ma non possiamo fare come i bambini che fingono che qualcosa non esista perché ti fa paura».
Lei però ha spesso desiderato di fingere di non essere malata.
«Assolutamente sì. Ero una persona scrupolosa, anche nei rapporti, eppure è successo. Mi fanno molta impressione le signore su con l’età che ho visto in cura, in ospedale, nei reparti dedicati: mi si spezzava il cuore perché si guardavano attorno come alieni al cospetto di una cosa che le terrorizzava. Non era il loro posto, ma invece è un posto anche per loro».
La malattia ha pesato anche sul suo desiderio di diventare mamma, scrive nel libro.
«È un capitolo molto sofferente per me. Oggi una donna sieropositiva negativizzata può avere rapporti anche senza preservativo e rimanere incinta. Per me non è stato così: diventare mamma non poteva essere lo slancio di un momento di passione ma serviva un passaggio tecnico che metteva in campo un altro gioco, la pianificazione. La maternità è stato un tasto veramente dolente, ma mi piacciono molto i bambini e mi ci diverto un sacco».
Nel libro parla anche della sua infanzia: è figlia del leader della Pfm Franz di Cioccio e della manager Anita Ferrari. Si è spesso ritrovata sola, senza sapere con chi si sarebbe svegliata, travolta dalle liti in famiglia e infine allo sbando.
«La separazione, non facile, tra i miei non ha aiutato. Ma in quegli anni però succedeva. Sono cresciuta prima del dovuto, dei buchi sono rimasti. Il mio intento non era sparare contro i miei genitori, come contro nessun altro. Ma volevo raccontare me stessa, la mia verità».
Sua mamma si è tolta la vita dopo che ci aveva già provato in passato. Come si può processare un simile dolore?
«Processare il dolore non è uno sport per tutti e mia mamma aveva stratificato una quantità di dispiaceri davvero grande, non processandoli, appunto. Alla fine se la sono portata via».
In poche righe, spiega anche che il figlio di sua madre, quindi suo fratello, è morto a tre anni, soffocato.
«L’ho scritto in poche righe perché non volevo indugiare su questo dolore ma era necessario per raccontare davvero chi fosse mia mamma».
Cosa le aveva detto dopo il primo tentativo fallito?
«È un inciampo che fanno in tanti quello di dire a qualcuno che soffre così: se mi vuoi bene smetti. Il problema è che non vogliono bene a loro stessi. Io a un certo punto ho capito che ero come lei e un giorno, nel suo primo Tso, le ho detto: ti devo lasciare andare. E lei mi ha risposto: hai ragione. Quando poi è successo, in qualche modo ero pronta. Mi ero già detta: arriverà il giorno che lo farà ma non posso stare sul balcone della vita ad aspettare che succeda. La mattina in cui ho trovato tutti quei messaggi sul telefono, ho capito tutto prima di leggerli».
Nella sua vita ha sperimentato diverse dipendenze.
«La dipendenza ti crea una situazione di benessere e, soprattutto, un’alternativa: ti impegna, anche quando poi si gira e ti mostra l’altra faccia della medaglia. Il tuo impegno diventa anche cercare di uscire dal buco».
Uscire da quello della cocaina non è stato semplice.
«Quello è stato un passaggio giovanile che è poi diventato altro. Sì, uscirne è stato molto faticoso e ringrazierò mia mamma per sempre per avermi fatto sentire il peso di quello che stavo facendo quando mi ha scoperta».
Come è successo?
«Eravamo a un matrimonio, sono uscita dal bagno e me la sono trovata davanti: tu che sei su di giri non ti accorgi di niente ma da fuori si vede tutto benissimo. Lei mi ha detto solo: no, anche tu no. Era così spaventata, così addolorata e impotente che mi è proprio passata attraverso».
La sua dipendenza è stata anche affettiva, precipitando in relazioni tossiche in cui veniva anche picchiata.
«È sempre il tema del non proteggersi, qualcosa che non voglio fare più. Se sei in anoressia di affetto anche uno che alza la voce o peggio ti sta dando attenzione».
In quegli anni ha pensato anche lei di farla finita. È più ricapitato?
«Non in quel modo. Ora rifletto sul fatto che uno degli effetti collaterali dei farmaci che prendo è il disturbo dell’umore, quindi se capita di svegliarmi accompagnata da pensieri tristi, oggi gli do una carezza e poi esco e vado a fare altro e dopo due ore, quando rientro, non ci sono più».
Per suo papà non sarà semplice leggere questo libro.
«Questa volta ho deciso di preoccuparmi solo di me: preoccuparmi degli altri è stata la mia occupazione principale per tutta la vita, ora avevo solo bisogno di essere me stessa. Con papà al momento non abbiamo rapporti, ognuno è andato per la sua strada... e se penso a tutti quelli che mi chiamano per avere il suo numero o dei biglietti... ma c’è sempre domani. Domani può sempre accadere qualcosa di inaspettato».
E cosa si immagina accadrà ora?
«Penso che tanti amici mi scriveranno... certo, mi aspetto anche delle critiche, ma sono pronta e lo capisco. La bontà di quello che fai non viene percepita da tutti. Ma quello che spero è di essere finalmente me stessa»
Inizierà un nuovo capitolo per lei?
«Sì, me lo auguro».
28 marzo 2023 (modifica il 28 marzo 2023 | 23:13)
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