Gian Paolo Barbieri. Omaggio al maestro che ha fatto la storia della ...

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Gian Paolo Barbieri

Grafici, filmici, sensuali. Scatti eterni che hanno reso il glamour su celluloide forgiando la storia della moda italiana. Restituendo l’esotismo di un deserto come sfondo di un cappottino pastello del primo Valentino, la peccaminosità di un corsetto strizzato su un corpo senza veli – “Non ho mai avuto tabù: per questo il mio rapporto con il nudo è sempre stato naturale. Ho sempre elogiato la bellezza” –, l’eleganza di una camicia bianca che è croccante scultura dell’architetto Ferré, o il tintinnio di chiavi e rossetto che scivolano da una borsetta Versace, citazione a Il postino suona sempre due volte con cui il maestro trasfigurò il suono in frame misterioso. Del resto, Gian Paolo Barbieri, da ragazzino iniziò a scattare per documentare le pièce che il suo amatoriale club de I Vitellini allestiva nel fine settimana. “Allora – ricordò una volta il fotografo – non sapevo neanche cosa fosse la moda. A quei tempi non c’erano i giornali di moda in Italia, ma solo piccole riviste con i cartamodelli”. E dire che lui, prima firma del Vogue quando ancora Novità, con la moda fu legato a doppio filo sin da giovanissimo, con la complicità del padre Mario grossista di tessuti che gli trasmise quel gusto raffinato poi sviluppato in immagini emozionali pervase da luci morbide. Una vocazione all’arte scenica che, archiviata la parentesi attoriale che lo vide esordire nelle Compagnie di Luchino Visconti, divenne la sua firma.

Una lady seduttiva avvolta di pelliccia e calze e rete, al tavolo dell’hotel Raffles di Singapore, al fianco di un anziano uomo asiatico che la scruta con un sigaro tra le mani, lasciando fantasticare l’osservatore su chissà quale trama noir. Eva Herzigova in abitino Krizia rosa, lo sguardo malizioso quanto il décolleté rivolto ad un ignoto interlocutore, tra un assaggio e l’altro di un bucatino al sugo. O ancora; Simonetta Gianfelici in Valentino, intenta in un bacio passionale che citò il duo Bergman-Bogart in un Casablanca della fotografia. Quasi scatti di un immenso ed eterno film, con protagonista una donna “non mitizzata” che, come scrisse Il fotografo in occasione di una mostra di Barbieri nel 2019, rispecchiava “la profonda convinzione dell’autore milanese che il mistero legato all’universo femminile non debba mai essere completamente svelato”.

L’incontro con la fotografia di moda, come vogliono spesso le storie leggendarie di miti della storia del costume, avvenne per caso, quando nella Roma della Dolce Vita gli scatti di Barbieri vennero notati da Gustav Zumsteg, amico del padre nonché proprietario delle seterie Abraham di Zurigo che, intravedendo una spiccata sensibilità estetica in quelle prime e dilettantistiche immagini, suggerì al fotografo in erba di lasciare la capitale a favore di Milano. Chissà quanto fu inaspettata per lui, quella lettera che lo invitò all’Hotel Windsor di Parigi per un incontro con Tom Kublin, il maestro legatissimo a Balenciaga e prima firma di Harper’s Bazaar con cui Gian Paolo Barbieri fece un intenso apprendistato di venti giorni prima della prematura morte del fotografo ungherese. Fu l’incipit di una carriera strepitosa; un master accelerato per scatti precisi cesellati da schemi di luce perfetti che negli anni hanno incorniciato dive e modelle: Veruschka e Marpessa, Naomi Campbell e Monica Bellucci, Mina e Jerry Hall, Isa Stoppi e Audrey Hepburn, il dolce volto da cerbiatta avvolto in un giga-collo di un abito Valentino e sospeso su celluloide in quello che è ormai un frammento mitologico della fotografia di moda.

Molte, moltissime le griffe che Gian Paolo Barbieri servì con la propria arte: Valentino e Armani, Versace e Ferré, ma anche Chanel, Saint Laurent, Vivienne Westwood e Dolce & Gabbana, in un andirivieni di rimandi alla storia dell’arte e del cinema, di pose sensuali e scenografie ingegnose, di magistrali bianchi e neri e frizzanti picchi di colore a cristallizzare, ad esempio, gli abiti della Primavera Estate del 1999 di Dame Westwood, suggestionato nella palette dall’opera di Henri Matisse. Un glamour che dagli anni Sessanta accarezzò i decenni della moda, accordando il gusto sulla pellicola di immagini iconiche che diedero il là ad un nuovo modo di concepire le ADV, oltreché accompagnare lo sviluppo del made in Italy e quello di alcune tra le riviste più prestigiose del mondo. Diana Vreeland, si racconta, gli offrì un lavoro strepitoso in America ma lui, come tutti i perfezionisti che sovente e di conseguenza sono anche grandi, non accettò per via della scarsa abilità nell’inglese.

Nel 1968 la rivista Stern lo elesse come uno dei quattordici migliori fotografi di moda al mondo, mentre nel 2018 venne insignito del Lucie Award come Migliore Fotografo di Moda Internazionale e le sue opere – un universo immaginifico che ha fissato in fotogrammi volti e corpi in una quantomai affascinante situazione borderline tra finzione e realtà – sono esposte in alcune delle più prestigiose istituzioni culturali, tra il Victoria & Albert Museum e la National Portrait Gallery di Londra, o il Kunsforum di Vienna e il Musée du quai Branly di Parigi.

Ha debuttato in tv nel luglio di quest’anno, invece, il documentario Gian Paolo Barbieri - L’uomo e la bellezza; un racconto intimo diretto da Emiliano Scatarzi che avvalendosi della pluralità di voci di muse e professionisti che con il fotografo lavorarono, ha tracciato metodo e suggestioni del grande maestro italiano venuto a mancare una manciata di giorni fa. Eppure vivranno per sempre i suoi scatti leggendari, guidati da testa e cuore poiché, in fondo, ciò che conta è “avere la passione. Se non hai quella sei finito”.

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