A Monaco per vedere l'effetto che Gianna Nannini ha sui tedeschi
Da Domenico Modugno in poi, ogni volta che un cantante italiano ha successo in terra straniera, nella nazione serpeggia un misto di sgomento e scetticismo. Anzi, a volte – dai Ricchi & Poveri a Bocelli, da Eros Ramazzotti ai Måneskin, da Gigi D’Agostino a Laura Pausini – il fatto che un nostro conterraneo venga apprezzato da qualche altro popolo (esclusi gli inglesi, che ci schifano vivi o morti) viene quasi usato come argomento contro di loro. Come una prova di maccheronità per la quale provare imbarazzo.
Gianna Nannini è tra i pochi artisti per i quali Coloro Che Ne Sanno possono accettare di fare un’eccezione, e non sempre a cuor leggero. Anche se il suo appeal europeo, e in particolare quello sul pubblico tedesco, è ricondotto alla (innegabile) componente melodica della sua musica, quasi fosse un difetto. Sta di fatto che la circostanza a volte ne ha comportato l’esclusione dal racconto del rock in Italia – e non è patriarcato critico, è più questione di tonteria critica.
Ciononostante, la curiosità un po’ rimane. Che cosa sentono, i tedeschi, in Gianna Nannini, tanto da consentirle nove date in nove città diverse in un tour che nemmeno linguisticamente va loro incontro (Sei Nell’Anima Tour)?
Ebbene. Siamo qui per questo.
Qui a Monaco di Baviera, nella Olympiahalle. Nozionismo semigratuito: è il luogo in cui Olga Korbut divenne la prima vera star della ginnastica artistica, nelle Olimpiadi del 1972. Con gli anni è diventata l’arena di riferimento per i musicisti più importanti di passaggio in città in inverno. Il mese scorso, Nick Cave e Alice Cooper, ci dicono. Ci sono foto di Ed Sheeran, Tina Turner. Il 28 novembre 2024 ci sono oltre 10 mila spettatori per Gianna Nannini. Qualcuno malignerà: «A Monaco ci sono tanti italiani». Può essere, ma a Kessel? A Norimberga? Francoforte, Essen?
Fidatevi: la stragrande maggioranza dei presenti è tedesca. Tant’è che non riesce a cantare bene le parole delle canzoni: se proprio non riescono a resistere si lanciano in un na-na-na. E poi sono così ordinati. Per vedere una bottiglietta o una cartaccia per terra bisognerebbe impegnarsi. Si fanno scalmanati – con educazione – solo quando dopo le note introduttive di 1983, la star italiana arriva sul palco: in quel momento, un buon migliaio di persone lascia i posti a sedere e va verso il palco, oppure tiene la posizione ma alzandosi comunque in piedi.
«Cosa piace di me ai tedeschi?», le chiediamo e si chiede. «Forse il mio essere un po’ impetuosa, un po’ sturm und drang… O forse la voce. Sam Phillips mi ha detto che è la voce più erotica che abbia mai sentito in vita sua». Sam Phillips, per i non nozionisti, è il batterista della sua live band attuale, il nome di maggior spicco in un gruppo di sette elementi di livello estremamente alto. «Questo è il miglior tour della mia vita», dice Nannini. «Mi sento come sopra a un cavallo che va veramente forte, o su una tavola sopra a un’onda altissima. È eccitantissimo e nel contempo devo stare attenta a non cadere».
Volendo, non è solo una similitudine: ultimamente, a partire da un tamponamento (a Ibiza) ha avuto incidenti di varia natura e si è rotta un po’ qua e un po’ là. Cosa che le ha impedito di iscriversi a una gara di triathlon, e la induce a muoversi sul palco con la cautela di una 60enne (inciso nozionistico: ne ha 70. Però ha il fondo atletico di Mick Jagger quando ne aveva 75. Che è quello che la maggior parte delle persone normali sfoggia a 35).
Scusate, torniamo ai tedeschi. «La prima volta che sono venuta qui è stato per un programma in tv, c’erano Elton John con Kiki Dee, e Leo Sayer. Però a darmi una nuova immagine rock in Europa, dove il rock era considerato un genere solo per americani e inglesi, è stato Conny Plank». Ci tiene sempre, a citare lo scomparso produttore, guru del rock tedesco (e non solo). Poi ricorda con malcelato orgoglio: «L’ultima volta che sono stata qui alla Olympiahalle c’erano in città i Deep Purple, c’era Ian Gillan che diceva: “Voglio conoscere questa Gianna Nannini”. Era rimasto colpito dal fatto che quando arrivavo io si alzavano tutti in piedi».
Ora: siccome è la seconda volta che il particolare viene fuori, non vorremmo comunicare l’idea che il pubblico tedesco tenda all’inerzia durante i concerti – stiamo pur sempre parlando della nazione che ci ha dato Nina Hagen, Einstürzende Neubauten e Rammstein, per fare tre nomi prevalentemente brevi. Ma anche di una terra di festival storici, con video e bootleg che provano (un po’ come la storia della civiltà, del resto) che se il tedesco viene riscaldato, parte.
Ma il punto è: il fatto che faccia battere i cuori di questo particolare pubblico.
In prevalenza ex ragazzi degli anni ’80 e ’90, ma anche decisamente più giovani. Anche durante pezzi come Un giorno disumano, sorridono. E in effetti, a guardare le facce, la sensazione è che siano autenticamente felici di ascoltarla e vederla – è una cosa che in certi Paesi supercool non si vede più molto spesso, bisogna essere spietatamente fighi come quelli sul palco, quanto meno per le stories da mettere sui social. Mentre per contro, racconta, «in Svizzera, a Zurigo e Ginevra ho avuto una sensazione strana. Poi ho capito cos’era. Ho risentito gli scrosci degli applausi, perché a quanto pare non si usano i telefonini ai concerti, e la gente può battere le mani: non c’era il muro di telefonini che ho visto per esempio a Jesolo».
Puntualizzazione: a Monaco, di telefoni che la riprendono se ne vedono un bel po’. Ma sapete, i tedeschi del nord dicono che qui in Baviera sono indisciplinati, potrebbe essere quello.
Mentre il concerto si dipana in una specie di marcia trionfale che riscuote prevedibili picchi di entusiasmo su Fotoromanza e Bello e impossibile (ma anche su Meravigliosa creatura, con partenza a cappella piuttosto emozionante anche per gente cinica come chi scrive), prende forma l’ipotesi che per i tedeschi Gianna Nannini, oltre a incarnare un’immagine di eterna, indomita, vivace trasgressione applicata al viver civile, rappresenti dal punto di vista musicale un punto di fusione tra tre componenti principali: 1) quello che chiamavano rock, 2) un po’ di pop schlager come piace da queste parti (specie grazie agli arrangiamenti), e 3) le sue perennemente rivendicate radici pucciniane. Ne deriva un impasto di rock e melodia che non è così semplice da rendere credibile, se ci pensate. E naturalmente l’arma segreta resta quella voce, che graffia qualunque sia il suo umore, come i gatti quando fanno le fusa e tuttavia ti piantano gli artigli nel braccio, perché oh, sono fatti così.
E parlando di musica. «Non ascolto tanta musica, in questo periodo», confessa. «Non contemporanea, perlomeno. Preferisco musica classica o flamenco. O musica tradizionale, di tutti i Paesi, anche la Groenlandia – davvero, ci sono cose, dei canti femminili a due… Nel rock cercherei cose di tendenza o strane, ma dai Fugazi a oggi non mi pare di aver più sentito niente di quel livello. Invece, mi piace Anna. Del resto da noi la musica mi pare aver preso sostanzialmente due direzioni: rap/trap, e canzoni. Il mondo della trap ha creato un gran bel clima, usando un frasario che nelle canzoni si perderebbe. La vedo come cosa positiva. Mentre invece sulla parte musicale ci dovrebbero lavorare un po’. Pensano che troppe cose suonino già sentite… Troppa gente schiaccia un bottone, e parte il ritmo. E poi ci sono troppi duetti. Dovrebbero abolirli. Sotto Sanremo, mi fioccano le proposte. Ma io non credo di essere adatta».
Strano che lo dica, perché quando deve citare un brano particolarmente attuale della sua set list, cita Radio Baccano, una delle primissime, storiche “contaminazioni” (come si diceva trent’anni fa) tra rock e rap italiano, con Jovanotti. «Non è che non si devono fare, è che si dovrebbero fare bene, con sapienza musicale, pensando gli arrangiamenti, e non come routine». Di featuring in un brano rap di una certa notorietà ne vanta anche un altro: In Italia, con Fabri Fibra. «L’ha aggiornata? Davvero? Ah, ha fatto bene. Il futuro della musica sono le varianti», sentenzia un po’ misteriosamente (almeno per chi scrive).
Il concerto volge al termine, partono le bordate di America. La gente balla, sempre sorridendo esageratamente, anche se non canta, e del resto a sua volta non è che Nannini si spenda molto con la lingua locale, malgrado tutti questi decenni da ospite riverita. Conclusione, saluti, inchini, diversi minuti di applausi.
E poi il bis. Bang.
Perché signore e signori, avendo giocato tutto sommato in casa e vinto, Gianna Nannini esegue addirittura Un’estate italiana, megahit con cui non ha mai avuto un rapporto facilissimo. Ed è a questo punto che possiamo individuare gli italiani nel pubblico, pochi e sparsi ma in estasi incredula. Un po’ per motivi calcistici, un po’ perché anche in un Paese straniero sono in totale sintonia con la nostra furibonda nostalgia degli anni ’90.
Peraltro poi, a ben guardare, le notti magiche in quei Mondiali le portarono a casa i tedeschi. Chissà, forse è una specie di metafora finale di questo trionfo della Gianna nazionale.