In aula, nella tradizionale relazione prima delle riunioni di ogni Consiglio europeo, Giorgia Meloni schiuma rabbia e non fa nulla per nasconderlo. «La logica del consenso viene scavalcata da quella dei caminetti nei quali alcuni pretendono di decidere per tutti, anche per quelli che sono della parte politica avversa o che vengono da Paesi piccoli. Una sorta di conventio ad excludendum in salsa europea che ho apertamente contestato e non intendo accettare». Suona come una dichiarazione di guerra. Se lo è davvero lo capiremo tra oggi e domani, in base agli esiti del Consiglio.
Nella sostanza, in realtà, la premier italiana non avrebbe molto da lamentarsi. Nella forma, che però in politica non è mai solo forma, invece certamente sì. Martedì pomeriggio i delegati alla trattativa dei tre partiti europei della cosiddetta “maggioranza Ursula”, il Ppe, il Pse e i liberali di Renew, si sono incontrati in videoconferenza e hanno stabilito le nomine per i top jobs europei. Giova che i sei “diplomatici'” sono anche i capi di governo dei principali Paesi dell’Unione. Tutti tranne uno, l’Italia, che non è stata neppure consultata per regola di cortesia.
Il greco Mitsotakis, esponente della destra del Ppe e dunque vicino alla premier italiana, l’ha chiamata a cose fatte per assicurarle che l’Italia avrebbe avuto un commissario di peso e che sarebbe anche stato vicepresidente della Commissione, probabilmente con funzioni esecutive. La premier non si è fatta trovare. Ieri la presidente candidata a succedere a se stessa von der Leyen ha diffuso la sua lettera sull’immigrazione, i cui contenuti avrebbe potuto firmare la stessa premier italiana. Giorgia non ha commentato.
Sin qui la sostanza. Ma nella forma lo schiaffone è stato sonoro, l’umiliazione è cocente. Ecr è il terzo gruppo europeo per numero di eurodeputati. Sinora, per prassi e convenzione, al terzo gruppo è sempre spettato l’Alto commissariato per la politica estera (con l’eccezione del 2014). La regola, informale ma sin qui rigida, è stata stravolta perché Ecr non è considerato un gruppo come gli altri ma una sorta di forza politica- paria. In tempi diversi l’idea di procedere con le nomine senza neppure consultare il terzo Paese più importante della Ue, l’Italia, non sarebbe venuta in mente a nessuno. In questo caso l’estromissione è stata invece ricercata, sottolineata, ostentata. Meloni è ritrovata sbalzata di colpo nella parte poco gradita dell’underdog, l’ “intoccabile” tagliata fuori dalle cabine di regia.
Se si tiene conto di quanto la premier abbia dedicato gli ultimi anni a tessere rapporti con Bruxelles e con i popolari europei e, peggio, se si rammentano le infinite volte in cui si è vantata di aver restituito all’Italia un ruolo da protagonista, si scopre quanto duro sia il colpo che socialisti e liberali hanno voluto vibrare non contro l’Italia ma contro la sua premier e la differenza è davvero sottile. Tanto che persino il capo dello Stato Mattarella, nel rituale pranzo con la premier e i principali esponenti del governo alla vigilia del Consiglio, non ha potuto fare a meno di schierarsi: «Non si può prescindere dall'Italia», dice e la frase, scarna ma significativa filtra immediatamente dal Colle.
La mossa di Macron e Scholz è stata brutale ma in una certa misura inevitabile. Entrambi devono vedersela con una destra all’arrembaggio nei rispettivi Paesi. Entrambi devono adoperare l’arma del cordone sanitario contro una sorta di moderno fascismo per sperare di salvarsi. Dialogare senza problemi con la sola leader di quella destra che gui- di uno dei Paesi principali dell’Europa, e dell'Europa occidentale non dell’est, vorrebbe dire privarsi di quell'arma.
A Meloni tocca ora assumere una decisione tra le più difficili. Il suo voto contro von der Leyen in sede di Consiglio è improbabile, anche se non impossibile. Significherebbe però vedersi schiacciata sull’estrema destra di Le Pen, Orbàn e Salvini, ruolo da ben diverso da quello di cerniera tra la destra e il possente Ppe a cui aspirava e aspira. Il voto a favore sarebbe una resa. Resta l’astensione, che sarebbe una scelta clamorosa: non è mai successo che una candidatura sia uscita dal Consiglio non all’unanimità, anche se per regolamento basta il voto di almeno 15 capi di governo in rappresentanza del 65% almeno della popolazione dell’Unione.
L’astensione significherebbe inoltre mettere in forse il voto per von der Leyen in Parlamento, il prossimo 18 luglio. Su quella base e di qui alla votazione la premier italiana tratterà direttamente con la candidata ma sarà una trattativa impervia. Non perché Ursula non sia disponibile, lo è eccome. Ma perché è molto difficile trovare una formula che possa riscattare l’umiliazione subìta dalla premier italiana. Un commissario importante e una linea politica sbilanciata a destra sull’immigrazione non basterebbero. Se fosse tutto lì la partita sarebbe già chiusa. Ma quel che deve ottenere Giorgia è una sorta di riconoscimento politico ufficiale che però rischierebbe di costare a von der Leyen il voto del Pse o almeno di una sua parte.
Senza la rete di Meloni la candidata a Strasburgo rischia grosso e rischierebbe anche se accorressero in soccorso i verdi, perché a quel punto sarebbe una parte dello stesso Ppe a non votarla. Tajani lo annuncia fuori dai denti: 'FdI voterà per von der Leyen ma solo se non ci sono i verdi'. Rischia la presidente-ricandidata. Rischia grosso Meloni, che potrebbe veder franare in pochi giorni due anni di paziente lavoro. Rischiano Macron e Scholz, leader traballanti che hanno scelto la linea dei mazzieri per debolezza e non perché forti. Rischiano tutti in una partita che è diventata durissima e spietata.