Pep Guardiola non è abituato a perdere - Il Post
Domenica pomeriggio nel campionato inglese di calcio il Manchester City ha perso 2-0 contro il Liverpool. In questo momento il City è quinto in classifica con 11 punti in meno del Liverpool e ha perso 6 delle ultime 7 partite giocate in tutte le competizioni, subendo 19 gol: nell’unica che non ha perso, contro il Feyenoord in Champions League, ha pareggiato 3-3 dopo essere stato in vantaggio per 3-0 a un quarto d’ora dalla fine. Alcune di queste sconfitte, peraltro, sono state particolarmente nette: 4-0 contro il Tottenham in Premier League, 4-1 contro lo Sporting in Champions. È insomma un periodaccio per il City, la squadra che da tempo domina il calcio inglese, e le conseguenze si vedono soprattutto sul suo allenatore Pep Guardiola, che in quindici anni di carriera non si è mai trovato in una situazione del genere.
Guardiola ha 53 anni e viene considerato uno degli allenatori più bravi, vincenti e influenti di sempre. Ha allenato il Barcellona, il Bayern Monaco e il Manchester City (dal 2016) vincendo tra le altre cose tre Champions League e dodici campionati, comprese sei delle ultime sette Premier League. Ha vinto 663 partite su 901, quindi quasi i tre quarti di quelle in cui ha allenato, e ne ha perse appena 114 (meno del 13 per cento). Non è un allenatore abituato a perdere e la recente serie di prestazioni e risultati negativi è una cosa inedita per lui: forse per questo sta faticando a trovare il modo di cambiare la situazione e in generale a gestirla anche dal punto di vista comunicativo, oltre che tecnico.
Nell’ultimo mese Guardiola ha reagito in modi diversi e spesso molto evidenti, mostrandosi a volte nervoso, altre sconsolato, altre ancora infastidito o incredulo per come stanno andando le cose. In generale, non è parso del tutto in controllo della situazione, come se la perdita di certezze in campo si fosse riflessa in una generale mancanza di riferimenti per un allenatore descritto da tutti come ossessionato dal controllo di ogni singolo aspetto riguardante la sua squadra. Sul Foglio, il giornalista sportivo Alessandro Bonan ha scritto che Guardiola «ha sempre vinto, abituandosi al successo, e questo probabilmente lo ha condotto dentro un territorio desertico, senza riferimenti precisi, solo illusori».
Pep Guardiola, 53 anni, è alla nona stagione al Manchester City (AP Photo/Scott Heppel)
Dopo la sconfitta contro il Brighton del 9 novembre, Guardiola era sembrato piuttosto scoraggiato e aveva parlato della possibile «fine di un’era» in riferimento al fatto che per il Manchester City sarà difficile vincere di nuovo il campionato. «So che la gente vuole vederci finiti. Abbiamo vinto tanto, ma questo finirà. Nei prossimi 55 anni, il City non vincerà ogni edizione della Premier League», aveva anche detto, rivendicando gli eccezionali risultati ottenuti in questi anni. A questo proposito lunedì il sito sportivo The Athletic ha evidenziato una sorta di paradosso per il quale «più le sue squadre vincono, più sembra sia facile farlo e meno vengono dati a lui i giusti meriti».
Si può dire che Guardiola abbia abituato tutti, compreso se stesso, a standard talmente alti da rendere difficilmente accettabili per il pubblico le poche volte in cui vengono disattesi. Prima della partita contro il Liverpool ha detto che dovrebbe essere normale, o comunque non così raro, perdere tre partite consecutive di campionato, e che «forse è più eccezionale vincere quattro Premier League di fila», un concetto apparentemente inattaccabile e che ha ripetuto spesso negli ultimi anni, ma al quale «nessuno ha dato ascolto, perché il City continuava a vincere», scrive ancora The Athletic.
Negli ultimi minuti della partita contro il Liverpool i tifosi avversari hanno schernito Guardiola cantandogli «verrai esonerato domani» e lui ha risposto facendo con le mani il segno “sei”, come il numero delle Premier League che ha vinto (spesso arrivando primo davanti proprio al Liverpool, che è riuscito a interrompere la serie del City solo con il titolo del 2020). Dopo la partita ha mostrato di essere ancora un po’ risentito: ha ricordato un’altra volta le vittorie ottenute con il City e ha detto che non se l’aspettava dai tifosi del Liverpool. In passato l’allenatore portoghese José Mourinho aveva fatto una cosa simile in diverse occasioni, per esempio mostrando tre dita ai tifosi della Juventus, a indicare i tre titoli vinti nel 2010 con l’Inter. Guardiola però fino a oggi non era quasi mai stato così plateale nelle provocazioni o nelle dichiarazioni, e anzi è stato a lungo visto come una persona molto sportiva ed elegante nel riconoscere i meriti degli avversari, a volte pure in modo eccessivo. Per alcuni il gesto contro i tifosi del Liverpool è un altro segno della sua recente scarsa lucidità.
Quando la rivalità tra il Barcellona e il Real Madrid allenate rispettivamente da Guardiola e Mourinho raggiunse il suo picco, nel 2011, il ruolo che veniva riconosciuto al primo era quello del leader illuminato che cercava il risultato attraverso il gioco, mentre Mourinho per quasi tutti era il provocatore che utilizzava qualsiasi escamotage pur di riuscire a competere. Lo stesso Guardiola, in una celebre conferenza prima di una delle tante partite che giocarono contro le due squadre, disse (a sua volta seguendo una precisa strategia comunicativa) che «domani ci affronteremo in campo, ma fuori dal campo lui mi ha già battuto. In questa stanza è il fottuto capo, il fottuto maestro (el puto jefe, el puto amo), e non voglio competere con lui».
Guardiola indica ai tifosi del Liverpool il numero di Premier League che ha vinto (AP Photo/Ian Hodgson)
La reazione di Guardiola che è stata più discussa è però senza dubbio quella avuta dopo la partita contro il Feyenoord. Il Manchester City, come detto, stava vincendo 3-0 al settantacinquesimo e sembrava in controllo della partita, ma negli ultimi minuti ha subìto tre gol: è stata la prima volta nella storia della Champions League che una squadra non ha vinto una partita in cui era in vantaggio di 3 gol a un quarto d’ora dalla fine (sul 3-3, oltretutto, il Manchester City ha colpito una traversa). Alla fine della partita, Guardiola si è presentato alle interviste con diversi graffi in fronte e sul naso e, quando gliene hanno chiesto conto, ha detto di esserseli procurati lui stesso: «Mi volevo fare del male, mi sono graffiato con le unghie». Poche ore dopo quelle dichiarazioni, che nel frattempo avevano causato diverse critiche, ha condiviso alcuni tweet nei quali si scusava per aver dato l’impressione di sminuire un problema grave come quello dell’autolesionismo.
Parlando dell’episodio in un articolo sul sito sportivo L’Ultimo Uomo, Emanuele Atturo evidenziava come l’intensità e lo stress con i quali Guardiola vive la sua professione sono sempre stati considerati un pregio, così come il modo in cui riesce a convincere i suoi giocatori a ricercare ossessivamente la perfezione. Allo stesso tempo, però, Atturo si chiedeva «qual è il punto in cui questa intensità finisce per sconfinare nell’auto-distruzione e nel patologico?». Le sconfitte dell’ultimo mese hanno insomma solo reso più evidente quanto sia difficile anche per Guardiola, una persona all’apparenza sempre in controllo di tutto, sopportare la pressione alla quale tifosi, dirigenti, media e lui stesso lo sottopongono.
I motivi per cui il Manchester City non sta andando bene sono diversi: le assenze di calciatori decisivi, innanzitutto, a cominciare da quella di Rodri, il centrocampista spagnolo che ha vinto l’ultimo Pallone d’Oro ma che a fine settembre si è infortunato al legamento del ginocchio destro. Oltre a lui, altri giocatori importanti come Rúben Dias, Nathan Aké e Kevin De Bruyne hanno saltato diverse partite. La scorsa estate per la prima volta il City non ha fatto un calciomercato molto dispendioso e anzi, ha avuto un saldo positivo di oltre 100 milioni di euro, grazie soprattutto alla cessione dell’attaccante argentino Julián Álvarez all’Atlético Madrid.
Guardiola finora era sempre riuscito a rinnovare la squadra e a dare nuova motivazione ai suoi giocatori, soprattutto grazie a brillanti intuizioni tattiche, che hanno permesso al City di rimanere competitivo al massimo livello per tanti anni. In questa stagione invece per la prima volta sembra esserci un po’ di stasi, anche perché i calciatori più importanti sono ormai gli stessi da anni: l’arrivo determinante più recente è l’attaccante Erling Haaland, che sta comunque giocando la sua terza stagione al City. È possibile che alcuni di loro, dopo aver vinto tutte le competizioni possibili e aver raggiunto un livello di efficienza quasi impareggiabile, abbiano perso delle motivazione, anche inconsciamente. È forse la prima volta in cui elaborare nuove tattiche non serve a Guardiola per continuare a vincere, ma per smettere di perdere, che dal punto di vista psicologico è una cosa diversa.
In questo periodo il City è più instabile del solito anche dal punto vista societario per via del grosso processo in corso nel quale il club è accusato di 115 violazioni dei regolamenti finanziari della Premier League. È un processo dagli esiti abbastanza imprevedibili perché non ha precedenti paragonabili nel calcio: il City rischia pene che vanno dalle multe in denaro fino a penalizzazioni o addirittura all’espulsione dalla Premier League. In tutto questo, comunque, proprio mentre il processo è in corso e la squadra è nel suo peggior periodo degli ultimi anni, Guardiola ha appena rinnovato il suo contratto per altre due stagioni, con l’intenzione di allenare il Manchester City almeno fino all’estate del 2027.