Il MoMA, l'Italia e il fascismo

29 Giu 2023

A lcune mostre tenute a New York tra gli anni Trenta e la fine dei Quaranta del Novecento testimoniano lo sforzo, e al tempo stesso l’imbarazzo, con cui per ragioni politiche la cultura statunitense si trovò a trattare la produzione artistica di un paese come l’Italia – prima fascista, perciò nemico, poi democratico e atlantico, perciò amico. Fu un processo tutt’altro che spontaneo e disinteressato. 

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Foto Il Tascabile

Italian Masters Lent by the Royal Italian Government, grande esposizione sui maestri del Rinascimento e del Barocco inaugurata al MoMA di New York nel 1940, tratta l’arte del Rinascimento e l’universalità dei suoi valori umanistici senza compromettersi con il dibattito storico-politico e culturale legato all’Italia contemporanea e fascista. In quel momento, parlare della grandezza dell’arte italiana significa parlare di quella antica: per Italian Masters, nel 1940, vengono imbarcate centinaia di opere dal Trecento al Settecento con grande soddisfazione di Mussolini. Per quanto risulti insolita una mostra di arte antica in un museo d’arte moderna, la scelta è funzionale alla legittimazione della visione progressiva dell’arte del direttore Alfred Barr, che infatti per l’occasione elabora uno schema critico per illustrare come l’arte occidentale affondi le proprie radici nella tradizione italiana, che assume così una parte fondatrice. Nello schema, comincia tutto da Giotto.

Questa esposizione arriva pochi anni dopo un’altra grande mostra, Cubism and Abstract Art, dedicata nel 1936 all’avanguardia astratta europea. Anche in questa occasione, ritroviamo uno schema di Barr: stavolta bisogna ordinare i movimenti artistici sorti dalla fine dell’Ottocento al presente, identificando influenze e discendenze dell’arte contemporanea. Unico movimento italiano inserito nella mostra è il futurismo: nell’apparato critico se ne evidenzia la massiccia influenza sui movimenti artistici europei, seconda solo a quella del cubismo. Ma una volta sviscerato dal punto di vista formale, del movimento rimane problematica la lettura storica e politica. In catalogo, la definizione del futurismo è: “Politically it was proto-Fascist; philosophically Bergsonian; ethically Nietzschean” (da Cubism and Abstract Art, cat. della mostra). Del programma futurista si dice che anticipa il fascismo; di Marinetti – fondatore e agitatore del movimento – che è un Senatore fascista; di Boccioni – considerato l’interprete più alto – si ricorda la morte nel 1916 per una caduta da cavallo durante una campagna militare, quasi a volerlo lontanamente assimilare a una forma di militarismo protofascista. Nel complesso, lo spazio riservato alla contemporaneità italiana è molto ridotto. Gli Stati Uniti sono riluttanti a dare spazio alla cultura di un Paese governato da un regime non democratico: problema che nella mostra del 1940, quella sugli Old Masters, viene aggirato raccontando passato italiano storicizzato e universalmente apprezzato proprio in anni in cui il fascismo ha inasprito la sua politica. 

A guerra finita e regime fascista rovesciato, la mappatura artistica del MoMA cambia. Prima ancora che l’Italia entri a far parte ufficialmente del sistema internazionale a guida statunitense con l’ingresso nella NATO il 4 aprile 1949, la diplomazia dell’arte statunitense è già impegnata ad avvicinare la nuova democrazia e valorizzare l’alleanza postbellica. Studi come La guerra fredda culturale: la CIA e il mondo delle lettere e delle arti di Frances Stonor Saunders (Fazi Editore, 2004) hanno portato alla luce un vero e proprio piano di guerra psicologica ideato dall’Intelligence statunitense con il fine di avvicinare il mondo della cultura europea alla sfera atlantica e scongiurare la minaccia dell’influenza sovietica. 

Nel Dopoguerra gli Stati Uniti iniziano un’operazione di ridefinizione dell’immagine italiana in campo storico-artistico, proponendola come culla dell’avanguardia, del progresso e della modernità, vale a dire valori fondamentali dell’auto-mitologia americana. Invece di fermarsi in un passato sicuro e non controverso, stavolta si tratta di dare dignità alla produzione artistica italiana più recente con un  tempismo, né casuale né disinteressato, che va di pari passo con gli investimenti massicci che dal 1947 gli Stati Uniti stanno profondendo attraverso il Piano Marshall. Con l’Italia ancora in macerie, la potenza americana può farsi promotrice di una rinascita: non solo attraverso il capitale speso, ma anche con un’operazione di immagine, offrendo uno specchio magico in cui l’Italia riflettendosi avrebbe visto un Paese e un popolo rigenerati. 

Nel complesso, lo spazio riservato alla contemporaneità italiana è molto ridotto. Gli Stati Uniti sono riluttanti a dare spazio alla cultura di un Paese governato da un regime non democratico.

In quel momento, alla soglia degli anni Cinquanta, il campo dell’arte in Italia è rappresentato da collezionisti e galleristi che faticano a garantire un mercato vivace e redditizio nella crisi generale del Dopoguerra. Una prima svolta la offre il ritorno in Italia di Alfred Barr, il direttore delle collezioni museali del MoMA, insieme a James T. Soby, capo del dipartimento di pittura e scultura del museo. I due viaggiano tra la primavera e l’estate del 1948 per selezionare dipinti, sculture e opere grafiche da esporre nell’ambizioso progetto di mostra sull’arte italiana del XX secolo. Non solo opere da chiedere in prestito, ma anche da acquistare per la collezione del MoMA, all’epoca ricca di arte europea ma carente su quella italiana in particolare. Nel 1948 le elezioni politiche, le prime repubblicane del Dopoguerra, registrano la vittoria della Democrazia Cristiana e segnano l’inizio di una lunga egemonia per la maggioranza che avrà il compito di ricostruire il Paese stremato dalla guerra e da vent’anni di dittatura. Nella sua complessità, il momento è un’occasione per chi vuole investire nell’acquisto di opere italiane a basso prezzo guadagnandosi anche la riconoscenza degli artisti. In Italia, Soby e Barr parlano con collezionisti e critici, incontrano molti artisti, visitano la Biennale di Venezia e la Quadriennale romana per raccogliere il materiale da esporre negli Stati Uniti. 

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Foto Il Tascabile

Nel 1949 quindi, tredici anni dopo Cubism and Abstract Art e dieci anni dopo l’esposizione sui Masters, gli Stati Uniti, usciti vincitori dal conflitto e impegnati nel definire gli equilibri mondiali, danno cenno della loro nuova posizione con Twentieth Century Italian Art. L’Italia diventa così un paese moderno capace di produrre grandi capolavori nel passato come nel presente. La mostra combina le opere di pittori più giovani, molti dei quali visti in Biennale a Venezia e in Quadriennale a Roma nel ’48, come Guttuso, Afro o Santomaso, con opere dell’avanguardia, assegnando al Futurismo, alla Metafisica e ad Amedeo Modigliani il ruolo di cardini dell’arte italiana recente. Ma il futurismo viene considerato fino alla data della morte di Boccioni, il 1916, ignorando gli sviluppi dei decenni successivi; le opere metafisiche risalgono alla seconda metà degli anni Dieci; Modigliani muore nel 1920: i tre riferimenti intorno ai quali ruota l’esposizione si attestano tutti, non casualmente, prima del Fascismo. Anche se il ponte col presente è gettato, si cerca di evitare il confronto diretto con il Ventennio. La mostra cerca di evitare una correlazione tra il totalitarismo e l’arte moderna, finendo così per licenziare una lettura disposta a compromettere l’oggettività dell’analisi storico-critica dell’arte e degli artisti durante il Ventennio. Non stupisce che l’iniziativa provenga da un ambiente diplomatico, l’Ambasciata americana a Roma. 

Nel Dopoguerra gli Stati Uniti iniziano un’operazione di ridefinizione dell’immagine italiana in campo storico-artistico, proponendola come culla dell’avanguardia, del progresso e della modernità.

Né stupiscono le conseguenze, non solo culturali. Gli Stati Uniti riescono a confezionare una nuova immagine della storia della cultura recente italiana e gli artisti italiani che approdarono oltreoceano si aprono a un mercato nuovo. Il collezionismo americano è più ricco e dinamico di quello italiano e molti partecipanti a Twentieth Century Italian Art inaugurano una fortunatissima carriera in America: Catherine Viviano, gallerista italoamericana, apre l’anno seguente la propria galleria a New York facendo di Afro Basaldella, le cui opere ha visto proprio al MoMA e che fino a quel momento era stato attivo a Roma – il suo principale artista. Afro vivrà e insegnerà per lunghi periodi negli Stati Uniti, presentando a Viviano altri colleghi italiani. 

Entrando nel merito della nuova narrazione americana, il Futurismo nella mostra del ’49 ruota ancora intorno a Boccioni come in quella del ‘36. Curiosamente, però, nel catalogo del 1949 la sua morte viene raccontata in un modo leggermente diverso: “Boccioni under circumstances of extreme romantic irony, […] was killed in a riding accident”. Cade il profumo di interventismo e militarismo, la morte diventa ironia romantica. Scomparso nel 1916, l’artista non aveva conosciuto il regime; considerarlo come interprete più alto della poetica futurista permette nuovamente di smarcare il movimento dalle analogie comuni con il fascismo. Rispetto alla definizione di un decennio prima usata nel catalogo di Cubism and Abstract Art (proto-Fascist; Bergsonian, Nietzschean), anche le parole con cui si definisce il futurismo cambiano: nel Dopoguerra si usano toni più vivaci, che lo rendono più commestibile: “youthful bombast, Bergsonian metaphysics, reckless iconoclasm and defiant patriotism”. Rimangono caratterizzazioni forti, ma spariscono il protofascismo e il riferimento a Nietzsche. Il futurismo viene riletto così:

Quando Marinetti tornò dalla guerra per allearsi con il suo compagno interventista, Mussolini, nessuno del gruppo originario di artisti era con lui, eccetto solo per Balla. Il Futurismo indubbiamente comprendeva alcuni degli stessi elementi del Fascismo: lo sciovinismo ad esempio, l’ammirazione per la guerra e l’audacia militare, entusiasmo per la tecnologia e le macchine […]. Ma, fondamentalmente, il Futurismo era anarchico, non fascista. Una seconda generazione di Futuristi crebbe intorno a Marinetti, dipinse, scrisse manifesti, manifestò e ottenne qualche riconoscimento ufficiale. Alcuni di loro erano uomini di talento, ma le loro attività erano marginali e i loro risultati di qualità minore rispetto a quelli dei primi Futuristi.

Un’apologia del genere è necessaria per realizzare lo scopo politico della mostra, e il fatto che una discussione simile sia all’epoca assente in Italia dimostra la necessità strettamente statunitense di questa narrazione. Soby e Barr scelgono di non coinvolgere critici e storici dell’arte italiani nella costruzione della mostra, che infatti non coglie l’attualità del dibattito italiano, poco interessato a una lettura del passato e, piuttosto, impegnato nella definizione di un linguaggio nuovo tra astrattismo e pittura realista.

Il fatto che una discussione simile sia all’epoca assente in Italia dimostra la necessità strettamente statunitense di questa narrazione.

L’arte italiana non esaurisce con questo la sua potenziale funzione per gli Stati Uniti. Una cronistoria dettagliata delle esposizioni internazionali del primo futurismo insiste sulla sua influenza nei confronti del linguaggio d’avanguardia in molti Paesi, dalla Russia all’Occidente. È importante sottolineare il contributo positivo che l’Italia ha fornito allo sviluppo del modernismo per rivalutare complessivamente le Avanguardie storiche. Dopo secoli di primato europeo in arte, negli anni Quaranta l’espressionismo astratto si pone come pittura propriamente americana, identitaria, moderna. Il Paese più ricco e potente del mondo è pronto per sancire il definitivo spostamento delle capitali artistiche occidentali dal Vecchio Continente agli Stati Uniti. Per sostenere questo linguaggio e certificarne la validità se ne devono però esaltare le matrici, radicate nell’avanguardia europea. Abstract Painting and Sculpture in America, curata da Andrew Ritchie, è la mostra del MoMA che nel 1951 spiega l’arte americana del presente. Ritchie non può fare a meno di recuperare le Avanguardie storiche, anche quelle italiane. Emergono dal catalogo gli esempi di Joseph Stella o di Max Weber, che al dinamismo futurista nelle sue immagini aggiunge la scomposizione cubista dei volumi. Ritchie dice così: 

Mentre l’arte astratta è un’arte di protesta, non è, come altri movimenti di ribellione, una mera protesta contro uno stile immediatamente precedente. È il culmine di molte rivoluzioni che risalgono al diciassettesimo secolo. E contiene in sé il residuo di molti degli elementi di protesta di queste passate rivoluzioni.

Recuperando la storia consequenziale che Barr ha espresso sin dallo schema del 1936, passando per quello del 1940, fino alla lettura del 1949, Ritchie conclude idealmente il lungo processo iniziato più di quindici anni prima per la costruzione di una critica moderna improntata su una visione progressiva dell’arte. Una lettura che, a ben vedere, è figlia del suo tempo, maturata a metà Novecento in una specifica fase dei rapporti economici e politici tra Italia e Stati Uniti. Eppure, è rimasta valida a lungo, tanto che solo nel decennio passato in America è iniziata un’indagine nuova sul Futurismo.

Ripercorrere oggi questa storia della critica d’arte, delle esposizioni e del collezionismo mette a nudo tutta l’arbitrarietà e la contingenza delle letture storiche. La critica è sempre dettata dall’epoca in cui viene costruita, le opere assumono significati diversi nel tempo, anche contraddittori. Certamente le ricerche su queste mostre statunitensi – oggetto del lavoro, tra gli altri, di Raffaele Bedarida, studioso e docente presso la Cooper Union di New York, nel suo Export / Import: The Promotion of Contemporary Italian Art in the United States, 1935–1969, 2016 –  ci invitano a tenere bene a mente chi è in grado di cristallizzare la lettura di un movimento artistico e perché.

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