L'Under-21 ci ha ricordato i nostri lati peggiori

29 Giu 2023
Italia Under 21

L’eliminazione di per sé non è un problema, ma il modo in cui è arrivata sì.

Da tre giorni era tornata di moda una delle parole che in Italia amiamo di più: biscotto. Un risultato concordato a priori tra due squadre a scapito di una terza squadra, violando ogni principio di etica sportiva. Ogni volta che la prospettiva di un biscotto si spalanca dinanzi alla Nazionale italiana ci pare assolutamente plausibile, anzi quasi scontata. Forse perché siamo così dentro una cultura dell’impiccio, dell’inciucio, che ci sembra assolutamente innaturale metterlo in pratica. Ci scandalizziamo preventivamente della cattiveria altrui, piangiamo la nostra onestà (“ci dicono tutti che siamo meschini ma alla fine siamo i più giusti, i più retti”), la paura di farci fregare – di sembrare fessi – ci divora più di ogni altra cosa, e sotto sotto accettiamo che sia il cinismo a regolare il mondo. L’unica legge dell’universo, e quindi anche del calcio.

Quasi sempre il biscotto, poi, non si consuma, e noi ci ritroviamo a fare i conti con noi stessi.

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E così da tre giorni piangiamo un fantomatico biscotto tra Francia e Svizzera Under-21. Un risultato combinato a priori per farci fuori: i temibili azzurrini, finora osteggiati da tutti, anche dagli arbitri e dalla UEFA. “Italia Under-21 in balia del biscotto tra Svizzera e Francia”, “Italia U-21: rischio biscotto”, “L’Italia teme il biscotto”, “Italia U-21: ipotesi biscotto”. Questi alcuni dei titoli dei giornali in questi giorni, che nascono certamente per creare engagement, ma sapendo benissimo di stimolare una delle nostre debolezze. Abbiamo finta di ignorare il fatto che ci bastava in fondo battere la Norvegia per passare il girone, una squadra da zero punti e un solo gol segnato in due partite. Come si dice in questi casi, “il destino era nelle nostre mani”.

Alla fine la Francia ha battuto la Svizzera 4-1, con leggerezza e superiorità. Noi invece abbiamo perso 1-0 contro la Norvegia e alla fine siamo stati eliminati a causa della classifica avulsa. Avevamo la stessa differenza reti della Svizzera, ma meno gol segnati. In fondo ci bastava un gol, un solo gol, contro la Norvegia. Avremmo potuto perdere anche 2-1, ma quel gol ci avrebbe comunque qualificato. Quel gol non è arrivato quando Cambiaghi, a pochi centimetri dalla porta, colpendo la palla con una parte del corpo non adibita al tiro, ha colpito la traversa. L’unico tiro in porta dei nostri 95 minuti.

È una lezione severa, ma non casuale, che l’Italia infine sia stata eliminata per aver segnato troppo poco. L’Italia che non produce talento offensivo, l’Italia che anche in Nazionale maggiore fa una fatica bestiale a far gol – e che non è qualificata ai Mondiali proprio venendo eliminata dalla Svizzera, che aveva segnato più gol di noi. Viene facile guardare nell’eliminazione dell’Under-21 come nello snow globe di Quarto Potere, e vederci dentro tutti i nostri tic e difetti. 

La nostra rigidità tattica, l’incapacità cronica di produrre talenti offensivi, la nostra fissazione col 3-5-2, l’ossessione per gli arbitraggi e la severità con cui giudichiamo gli errori. Più in generale, una diffusa assenza di leggerezza con cui viviamo il calcio, che a volte è stato il nostro più grande pregio, e che spesso ci condanna a questi fallimenti cupi e marci. In un torneo giovanile il problema chiaramente non sono stati i risultati, sebbene c’era in palio la partecipazione ai Giochi Olimpici, ma il modo in cui questi sono arrivati. Quello dovrebbe farci preoccupare. La crescente tensione e angoscia con cui abbiamo vissuto queste partite, con giocatori bloccati dalla paura, spaventati dall’errore, incapaci di associarsi fra loro in modo efficiente o anche solo bello, nonostante le qualità tecniche stavolta non si può dire che mancassero. La negazione stessa della gioventù, che dovrebbe essere freschezza, energia.

Avevamo i migliori talenti a centrocampo, eppure siamo riusciti a escogitare un gioco che non passava mai per il centrocampo. Tonali, Rovella e Ricci avrebbero dovuto aiutarci a risalire il campo in maniera tecnica e ariosa, e invece finivamo a verticalizzare sempre per le punte, o a passare disperatamente per le conduzioni dei nostri esterni.

Si poteva giocare solo così? Eppure i giocatori per giocare con un 4-3-3, per fare un esempio, c’erano. Cambiaghi e Gnonto non avrebbero dovuto alternarsi in questa riproposizione di terza mano della staffetta Rivera-Mazzola o Totti-Del Piero. Wilfried Gnonto è stato preso in “prestito” dalla Nazionale maggiore per essere schierato fuori ruolo, seconda punta, spalle alla porta, sacrificato sull’altare del Dio del 3-5-2. È riuscito persino a fare qualcosa, soprattutto quando ha trovato il modo di allargarsi sull’esterno, o di ricevere nel mezzo spazio.

Avevamo negli occhi la magnifica Under 20 di Nunziata, col suo gioco associativo e divertente. La sua densità in zona palla, il suo palleggio in spazi stretti, il suo pressing ambizioso. Ci sentivamo proiettati nel futuro, di un calcio basato sulle relazioni e sulla tecnica, e ci siamo ritrovati di nuovo nell’incubo del 3-5-2, dei centrali che verticalizzano verso le due punte che devono venire strette. L’incubo delle seconde palle, della pioggia di cross nel mezzo – che non prendiamo mai, davvero mai. Il fantasma di Giampiero Ventura e dei 3-5-2 passati che viene a visitarci di notte. Guidavamo una Tesla e ci siamo ritrovati con una Ritmo tutta scassata. 

Negli ultimi venti minuti contro la Francia Nicolato è passato a un 3-4-3 con due esterni larghi – Gnonto e Cancellieri – e abbiamo visto qualcosa. Un esperimento ovviamente destinato a non ripetersi: siamo tornati al dogma del 3-5-2. Finita quella partita abbiamo parlato solo dell’arbitraggio, ignorando del tutto il fatto che avessimo giocato male, davvero male.

L’Italia ha giocato con rigidità e impaccio, puntando tutto sulla propria capacità di sfruttare i calci piazzati di Tonali. Ha giocato così di fronte a nazionali più naif, ma che ci hanno restituito un’idea più giusta forse della funzione di una Nazionale giovanile: crescere talenti, dargli la possibilità di esprimersi. La Francia, che contro di noi avrebbe potuto anche perdere per ingenuità, ma che ha avuto momenti di brillantezza gloriosi coi suoi giocatori offensivi. La Svizzera, che ci ha messo in grande difficoltà col suo coraggio nel secondo tempo. La Norvegia, che ha messo dentro un paio di giocatori che ci hanno messo di fronte a una dura realtà: persino in Scandinavia vengono fuori attaccanti più forti e talentuosi dei nostri. Giocatori come Oscar Bobb o Antonio Nusa, che appena hanno il pallone tra i piedi provano a saltare il loro diretto avversario, creare superiorità numerica, fare qualcosa.

Quando parliamo del talento, di questo talento offensivo, lo facciamo come se fosse qualcosa di intangibile. Ne parliamo come se fosse distribuito da Dio. Come se non fosse il frutto del lavoro delle Federazioni e dei club, di un lavoro sui principi, sulle idee, sui concetti. Un lavoro culturale, che dovrebbe abbandonare certi nostri tic e ossessioni. La paura dell’errore e la sua condanna, per esempio. Perché senza accettare l’errore il dribbling muore, e noi siamo il campionato in cui si dribbla meno – e che ha accolto l’arrivo di Kvicha Kvaratskhelia, genio del dribbling e dell’errore, come uno sbarco alieno.

Uno dei nostri rari dribblatori è Destiny Udogie, autore di un grande primo tempo contro la Francia. L’unico nostro giocatore disposto ad assumersi dei rischi. Solo che il suo errore nella prima partita ci è costato il 2-1 avversario. Udogie è stato poi sostituito e non ha più visto il campo. Uno dei nostri migliori giocatori, per certi versi il migliore, non ha giocato nemmeno un minuto della partita decisiva che ha decretato la nostra eliminazione. Una forma di auto-sabotaggio davvero molto italiana. 

Allora forse c’è questa nostra ossessione per l’errore dietro alla mancanza di talenti offensivi, e il 3-5-2 – il modulo che non prevede esterni e trequartista – è la nostra coperta di Linus in cui rifugiarci: causa ed effetto delle nostre miserie. L’ultima mezz’ora di Italia-Norvegia è stata surreale e paradigmatica. Gli azzurri avevano bisogno di un gol per qualificarsi: avrebbero potuto anche perdere 2-1, ma era la Norvegia ad attaccare, a cercare il gol del 2-0 che avrebbe qualificato loro. Attaccava la Norvegia perché aveva più talento, più capacità di salire nella nostra metà campo, ma anche perché aveva capito che non aveva più niente da perdere e aveva accettato di non lasciare più nessuno in difesa. L’Italia è anche andata vicina a un paradossale gol in contropiede, un paio di volte; ma comunque non ha trovato l’energia per attaccare davvero e con continuità. Forse non avevamo abbastanza forza e talento per farlo, o forse avevamo una paura paradossale, interiorizzata, dell’errore, di scoprirci troppo.

Non c’è niente da rimproverare ai singoli giocatori, alcuni di loro davvero talentuosi, né allo spirito di gruppo che hanno dimostrato. Dopo la partita si è di nuovo fatto un gran parlare di “rispettare la maglia azzurra”; lo ha detto anche Samuele Ricci, premiato come migliore in campo. È sembrato un altro tentativo di dare una spiegazione morale a un fallimento che ha che fare più con le idee con cui ci siamo presentati a questo torneo. Non ci manca certo l’orgoglio, la cattiveria agonistica, lo spirito di squadra; non dobbiamo “farci un bagno d’umiltà”, come ci si affretta a dire in questi casi. Al contrario è la leggerezza che ci manca, la sfrontatezza, la gioia. L’Italia ha bisogno di un rinnovamento strutturale, come c’è stato in Francia, Germania e Inghilterra. Qualcosa che Mancini ha iniziato a fare col suo ciclo, che ci ha portato subito a vincere un Europeo.

Inevitabilmente è un processo lungo. Nonostante la piega discutibile che ha preso la Nazionale maggiore, qualcosa si muove: il talento di Gnonto, Pafundi, Baldanzi sembra promettere qualcosa di diverso dal solito. Attaccanti che basano il loro gioco quasi interamente sulla tecnica come non se ne vedevano da almeno vent’anni in Italia. Poi c’è la Nazionale di Nunziata, che abbiamo già raccontato, e in Serie A la vittoria del Napoli, con la sua fluidità e il suo gioco basato sulla tecnica e il dominio della palla, dovrebbe dirci qualcosa. 

Questa Under 21 allora è sembrata una parentesi anacronistica; come aprire un armadio di vestiti vecchi e fuori moda, con cui si sta ormai scomodi e infelici. Un’Italia tesa e spaventata, che rincorre i fantasmi del biscotto altrui, della persecuzione arbitrale e della sfortuna; un’Italia a cui è rimasto solo un cinismo stanco, grave, senza nessuna idea o spinta vitale. Una squadra che rappresenta bene alcune delle nostre parti peggiori; le conosciamo bene e non le avremmo più volute vedere.

Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021).

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