La nuova vita sportiva di Jannik Sinner
Jannik Sinner (foto Epa, via Ansa)
Il Foglio sportivo
Non è bastata la decisione dell'antidoping del tennis che non ci fosse dolo nella positività del tennista sudtirolese per evitare all'atleta la gogna del sospetto. E ora?
C’è nulla di più complicato e snervante di quando ci si accorge che il peggio che si pensava passato non solo non è passato, ma anzi ti vomita addosso ancora tutto ciò che ti credevi essere messo alle spalle. Jannik Sinner credeva, e pure con una certa ferrea logica, che aver chiarito con l’antidoping del tennis la sua posizione e che l’International tennis integrity agency (Itia) l’avesse considerato non colpevole, potesse chiudere l’argomento della sua positività al clostebol.
Sciocco? Forse ingenuo. Senz’altro ottimista.
Non funziona così. Non almeno nello sport. Se in un modo o nell’altro ti ritrovi ad avere a che fare con la giustizia, indipendentemente da come andrà a finire, non sarai mai, almeno per una buona parte degli appassionati un innocente, al massimo uno che in qualche modo l’ha fatta franca. C’è nulla di più sportivo del sospetto.
Jannik Sinner proprio quando era convinto che il peggio fosse passato si è ritrovato in un campo da tennis a giocare per l’ultimo torneo del Grande Slam, l’US Open, quello che si gioca sul cemento dell’Usta Billie Jean King National Tennis Center di New York, con addosso la nomea del paraculato.
Si è ritrovato solo come sempre contro un avversario, ma più solo di prima perché sospettato, benché assolto, di aver barato.
C’è da perderci la serenità quando capita così. Quando accade che non basta nemmeno la verità “processuale” per essere davvero creduti innocenti.
È un peso per chiunque. Se si è bravetti ce la si cava con poco, con qualche sorrisetto maligno o qualche battutina del tipo “nemmeno andare a benzina ti ha aiutato a vincere”. Ma se si è i più forti al mondo, il numero uno del ranking, ecco che il peso del sospetto è enorme, un macigno capace di schiacciare ogni cosa.
Non serve nemmeno continuare a vincere per scacciare il sospetto che le vittorie precedenti fossero frutto solo di talento e non di mezzucci. Se si inizia a perdere poi è il patatrac. L’equazione è fatta: prima hai vinto perché hai barato, ora che non lo puoi più fare sei un tennista qualsiasi.
E non funziona così solo fino a quando il ricordo è fresco. Funziona così a lungo, per anni, se non per sempre quanto meno per un bel po’. Dovrà imparare a conviverci Jannik Sinner. Fregarsene di quello che viene detto e soprattutto non detto. Non leggere, non vedere, non sentire, perché tanto qualcuno che gli rinfaccerà qualcosa lo troverà. Non sarà facile.
E non sarà facile soprattutto perché negli ultimi mesi si era trovato portato in trionfo da un paese talmente affamato di campioni che si è preso la briga pure di interessarsi a uno sport come il tennis a cui è sempre fregato poco o nulla ai più.
Uno sport che, giusto o sbagliato che sia, era ritenuto fighetto e da fighetti, buono per qualche battutina sulla simpatia di Adriano Panatta e su quanto fa ridere quando prende in giro Paolo Bertolucci. O per qualche chiacchiera su quanto era elegante Roger Federer, quanto tenace Rafael Nadal, quanto bravo e no vax Novak Djokovic. Cose così. Riempitivi da pausa di campionato.
Jannik Sinner ora non può far altro che vincere, per non ritrovarsi a essere un altro, l’ennesimo, innamoramento stagionale. Una cosa già vista.
Giovanni BattistuzziAl Foglio dal 2014. Nato nel giorno più freddo del secolo scorso, lì dove la pianura incontra il Prosecco. Insegue. In libreria trovate Girodiruota e Alfabeto Fausto Coppi. E dal maggio 2023 Lance deve morire, il suo primo romanzo.
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