Presidenziali Usa, Joe Biden non si può sostituire - ItaliaOggi.it

3 giorni ago
Luigi Curini

«Le alternative semplicemente non ci sono», dice Luigi Curini, politologo dell'Università Statale di Milano e visiting professor presso la Facoltà di scienze politiche ed economiche della Waseda University di Toky. Sostituire Joe Biden nella corsa per le presidenziali americane del prossimo novembre, dopo il confronto disastroso con l’avversario Donald Trump che ha avvalorato le voci di un suo decadimento mentale, non solo è complicato, avendo Biden vinto le primarie, ma potrebbe essere addirittura controproducente per i dem. Analizza Curini: «Biden è la foglia di fico di un partito molto diviso in politica estera, questione Israele-Gaza, così come in politica interna, con divisioni profonde tra l'ala più oltranzista e quella più moderata del partito su tematiche quali immigrazione, legalità, questioni di genere». Insomma, «Biden appare tutt'ora l'unico nome in grado di dare una parvenza di unità al partito». Resta però un dubbio di fondo: se i deficit cognitivi di Biden sono reali, «da quanto tempo è impossibilitato a governare? In questi mesi (o anni?) chi ha preso le decisioni politiche? E perché tutti i democratici hanno sempre sostenuto il contrario?». Un altro dei motivi per cui ai dem conviene tenersi Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca.

Joe Biden - Figure 1
Foto Italia Oggi

Domanda. Grande attesa per le mosse dei dem dopo il confronto disastroso tra l’attuale presidente e lo sfidante Trump. La domanda è: Biden può essere sostituito?

Risposta. Per sostituire Biden, almeno stante le regole della Convention Democratica, una tra due condizioni deve essere soddisfatta. Primo: Joe Biden annuncia di ritirare la propria candidatura dalle prossime elezioni presidenziali 2024 di sua iniziativa. Secondo: Joe Biden è impossibilato a parteciparvi, ad esempio perché gravemente malato. Considero entrambe le possibilità improbabili, almeno al momento. In particolare la seconda.

D. Che però pare essere quella più verosimile.

R. Però ha diversi inconvenienti. Da un lato implicherebbe aprire un vuoto di potere da qua fino a gennaio 2025. Certo, entrerebbe in carica il vicepresidente, ovvero Kamala Harris. Ma i punti interrogativi sulla sua competenza e affidabilità in questi anni di amministrazione democratica si sprecano. D'altra parte, e punto cruciale, significherebbe certificare davanti al mondo che i deficit cognitivi di Biden sono in effetti talmente gravi da costringerlo al ritiro. Ma se sono reali, è ben difficile sostenere che si siano manifestati all'improvviso. E allora qualche domanda potrebbe nascere: da quanto tempo Biden è impossibilitato a governare? In questi mesi (o anni?) chi ha preso le decisioni politiche? E perché tutti i democratici hanno sempre sostenuto il contrario? Il danno reputazionale davanti agli elettori americani per il partito dell'asinello sarebbe semplicemente troppo alto da sostenere. Per questo non resta che, eventualmente, la prima strada.

D. Potrebbe dunque dimettersi... è già accaduto nella storia americana.

R. Certo, è successo ad esempio nel 1968 con l'allora presidente, anche in questo caso democratico, Lyndon B. Johnson. Ma con una importante e cruciale differenza. Johnson si è ritirato quasi subito dalle primarie democratiche, dopo aver vinto solo di misura quelle del New Hampshire. Biden le ha fatte tutte e le ha vinte. Mentre l'establishment democratico ha fatto di tutto per scoraggiare qualunque seria competizione entro le stesse, costringendo Robert Kennedy Jr., il più accredito avversario, ad abbandonarle per correre da indipendente. Il che ci riporta al punto notato più sopra: se le condizioni cognitive di Biden erano già precarie durante le primarie, perché farlo? Ex-post, una strategia non molto lungimirante. D'altra parte, siamo sicuri che Joe Biden sia intenzionato a ritirarsi? Da quello che trapela al momento dal suo più stretto "cerchio magico", non sembrerebbe.

D. C'è chi sostiene che però questo Biden, anche se non in perfetta forma, ha governato gli USA e non male in questi anni. E dunque può continuare a farlo.

R. Gli USA, come tutti gli stati, democratici e non, non ammettono vuoti di potere. Quindi qualcuno deve sempre governare e prendere decisioni. Ora, negli stati democratici è supposto che prenda queste decisioni chi ha ottenuto un mandato elettorale per farlo. Ed è un punto cruciale: l'intera possibilità di responsabilizzare chi governa dipende infatti dalla capacità degli elettori di capire chi è responsabile delle scelte che vengono, o meno, prese. Quando questa trasparenza viene meno, appassisce la sana disciplina che il voto democratico produce. Se non sappiamo chi sono "i mascalzoni", come facciamo infatti a "mandarli a casa"? La conseguenza è che chi prende effettivamente le decisioni diventa impunibile dal corpo elettorale, e quindi irresponsabile. Una bella iattura.

D. Se Biden è quello visto nel recente dibattito, si potrebbe pensare che le politiche portate avanti dagli Stati Uniti non siano sempre state farina del suo sacco.

R. La tecno-struttura è sempre importante. Ma attenzione: nell'aiutare un politico a decidere, non a prendere il suo posto perché il politico in questione ha problemi cognitivi a prendere queste decisioni. Con il paradosso che per «salvare la democrazia dalla minaccia di Trump», si è portato avanti qualche cosa che non è a ben vedere poi molto democratico...

D. Chi potrebbe prendere realisticamente il posto di Biden?

R. Anche qua la situazione non è rosea. Da un punto di vista programmatico, il partito democratico mi pare diviso al suo interno esattamente come quello repubblicano, se non addirittura di più. Tra opposte posizioni in politica estera, pensiamo alla questione Israele e Gaza, così come in politica interna, con divisioni profonde tra l'ala più oltranzista e quella più moderata del partito su tematiche quali immigrazione, legalità, questioni di genere. Biden appare tutt'ora l'unico nome in grado di coprire almeno in parte queste divisioni, dando una parvenza di unità al partito.

D. Insomma, una foglia di fico.

R. Esatto, una foglia che, se tolta, darebbe la stura a una vera e propria polveriera, con regolamenti di conti da portare avanti in una eventuale convention democratica aperta in cui il 99% di delegati, di fronte ad un eventuale ritiro di Biden, saranno liberi di votare come vogliono. Non scordiamoci cosa è successo nel 2016, in cui la rivalità e la polemica tra Bernie Sanders e Hillary Clinton sono costate la vittoria a quest'ultima. Riprendendo l'esempio storico di Johnson, rischieremmo di trovarci di fronte ad una nuova convention democratica come quella del 1968, in cui Hubert Humphrey, nonostante le ampie proteste fuori dalla convention, batte il pacifista Eugene McCarthy, per poi venire sonoramente sconfitto dal repubblicano Nixon subito dopo. In questo quadro solo un nome potrebbe uscire dal cappello per evitare questo finale, per via se non altro del cognome che porta: Michelle Obama. Ma non mi pare che quest'ultima abbia voglia di mettersi a correre al momento. Non stupisce quindi che tutti i principali politici democratici si siano affrettati a riconfermare il proprio sostegno a Joe Biden. Le alternative semplicemente non ci sono.

D. Qual è il collante di un partito che è una polveriera?

R. L'avversione al super-cattivo. Ovvero a Donald Trump. Tratteggiarlo come un pericolo democratico serve infatti non solo come strategia comunicativa per convincere gli elettori a non votarlo, ma anche, se non soprattutto, come collante interno al partito. Per rinviare sine-dia le sue divisioni interne. Praticamente gli Stati Uniti e il partito democratico stanno vivendo la storia che ha vissuto la sinistra italiana con Silvio Berlusconi per molti anni. Con un esito che rischia di essere, elettoralmente, alla fin fine poi non troppo dissimile.

Riproduzione riservata

News correlate
Leggi di più
Notizie simili