Usa 2024, pronta la Convention democratica di Chicago per ...

18 Ago 2024

Stanno già arrivando a frotte a Chicago, Michigan, i 4600 delegati (di cui una trentina uncommitted, cioè non affiliati) che animeranno la Convention del Partito democratico, in programma da domani fino a giovedì, quando Kamala Harris pronuncerà il tradizionale “acceptance speech”, il discorso con cui confermerà di accogliere la nomination e di correre come candidata alla presidenza degli Stati Uniti. Cinquantamila afflussi totali previsti tra delegati, manifestanti, giornalisti, influencer, semplici simpatizzanti: tutti a celebrare il rito collettivo della Convenzione, la riunione di “famiglia politica” in cui ci si stringe intorno al frontrunner per dargli la volata finale. 2500 poliziotti per garantire l’ordine, 12mila volontari perché tutto fili liscio, quattro oratori d’eccezione: Joe Biden, il vecchio leone ferito, ancora rancoroso (soprattutto con Nancy Pelosi) e convinto di poter vincere, parlerà domani, 19 agosto, nella prima giornata. Poi sarà la volta degli illustri predecessori, Barack Obama martedì sera e Bill Clinton mercoledì. Infine lei, Kamala, la vice in carica e (sperano i dem da costa a costa) prossima, e prima, Commander in Chief.

Kamala Harris - Figure 1
Foto Rai News
La Convention si apre in un clima diverso

La Convention, allo United Center della “windy city”, si apre in un clima decisamente diverso rispetto a quanto si prevedeva solo tre settimane fa. A luglio la cocciutaggine di Biden a non farsi da parte sembrava un ostacolo insuperabile, soprattutto per la convinzione del presidente di avere dalla sua sondaggi promettenti, che gli mostravano di poter battere Trump, e che invece preannunciavano una sicura sconfitta, rendendo la Convention di Chicago un triste rito di facciata. Poi gli interventi martellanti dell’ex Speaker della Camera, Nancy Pelosi, che prendono per sfinimento il vecchio Joe e lo inducono alla resa. Il resto è cronaca di questi giorni: Kamala accetta l’indicazione di Biden, riceve il sostegno dei leader del partito, comincia subito la campagna elettorale, sceglie come vice Tim Walz, vola nei sondaggi, sia nazionali che negli Stati in bilico, quelli che determinano la vittoria.

Kamala Harris e Tim Walz fanno la loro prima apparizione insieme a Philadelphia (Getty)

Sondaggi favorevoli per Harris, sia nel voto nazionale che negli Stati chiave. Banco di prova, la Pennsylvania

Gli ultimi dati disponibili (una rilevazione Washington Post-Abc News-Ipsos) indicano infatti che nel voto nazionale, la candidata dem guida 49% a 45% in un duello solo contro Donald Trump, mentre includendo candidati terzi è al 47% contro il 44% del tycoon, con Robert F. Kennedy Jr al 5%. All'inizio di luglio, Trump era al 43%, Biden al 42% e Kennedy al 9%. Dato il margine di errore in questo sondaggio, che verifica solo il sostegno nazionale, il vantaggio di Harris tra gli elettori registrati non è considerato statisticamente significativo. Ciò a cui i due candidati e i rispettivi staff puntano, e che la storia delle elezioni americane ha insegnato, è vincere nei cosiddetti “swing States”, Stati in bilico e al tempo stesso “chiave” per la vittoria, vale a dire toccare i 270 grandi elettori che assegnano presidenza e vicepresidenza.

Kamala Harris - Figure 2
Foto Rai News

Andando ad analizzare le tendenze dell’elettorato in alcuni di questi Stati, secondo le ultime rilevazioni New York Times-Siena College, si vede come Harris sia ormai in solido vantaggio in Arizona (50% a 45%) e North Carolina (49% a 47%), mentre è leggermente indietro – ma sta recuperando – in Nevada (47% a 48%) e Georgia (46% a 50%). Eppure, è la Pennsylvania il vero banco di prova, più della Florida e dell’Ohio: con i suoi 19 delegati, si tratta dello Stato “sine qua non”, dove bisogna vincere per forza. E Kamala Harris e The Donald lo sanno così bene che stanno diffondendo a macchia d’olio spot elettorali su ogni possibile piattaforma, spendendo decine di milioni di dollari (che alla fine della campagna, secondo i calcoli, supereranno la cifra record di 200 milioni, solo in Pennsylvania), oltre a un fitto calendario di comizi in presenza (Trump tornerà anche a Butler, dove ha subìto l’attentato che gli è quasi costato la vita).

E Trump attacca: “Convention truccata”

Intanto, in difficoltà e quasi in risposta ai sondaggi che non gli sono favorevoli, con lo stile rabbioso e al veleno che gli è tipico (a maggior ragione da quando Harris ha preso il posto di Biden), l'ex presidente Trump ha definito la Convention democratica “truccata”, conseguenza di un “colpo di stato contro Biden”. Nel suo comizio di ieri sera in Pennsylvania, il tycoon ha contestato nuovamente la legittimità di Harris per essere entrata in gara senza un voto della base, dopo che Biden aveva stravinto le primarie. Un argomento che, pensano in casa dem, potrebbe utilizzare per contestare l'esito delle elezioni, se dovesse perdere.

Donald Trump e Kamala Harris: i sondaggi suggeriscono che alla fine sarà un testa a testa (Rainews)

Chicago, la città delle “incoronazioni”. Con un pericoloso precedente

Per tutta la settimana, quindi, occhi puntati su Chicago. Ma sullo sfondo resta qualche ombra: il passaggio del testimone, ancora non del tutto digerito, tra Biden e Harris - come si diceva - è solo la punta dell’iceberg delle tensioni sotterranee che percorrono ancora oggi il partito e che continueranno a scuoterlo nei prossimi giorni. Applausi, sorrisi, segni di vittoria fuori; frecciate, sguardi cupi e velenose cattiverie in gran segreto. Dopo aver parlato, domani sera, Joe Biden andrà in vacanza in California, senza assistere e applaudire gli altri interventi. Il presidente, infatti, non ce l’ha solo con Pelosi ma anche col suo presidente Obama, che gli aveva preferito Hillary Clinton nel 2016, poi battuta da Trump. Ma non ci sarà neanche Kamala Harris, impegnata fino all’ultimo nei tour elettorali in giro per il Paese.

Kamala Harris - Figure 3
Foto Rai News

Una veduta di Downtown, Chicago (Pixabay)

I commentatori, intanto, fanno notare che scenario migliore come Chicago, the Second city, non ci potesse essere, dal momento che la terza città più grande degli Stati Uniti, affacciata sul vasto lago Michigan, è il nucleo della politica democratica, più dell’ultra liberal San Francisco e della troppo cosmopolita New York. È il centro del Midwest e del Paese, crocevia di flussi nord-sud ed est-ovest, cuore pulsante e operoso dell’America operaia, industriale, metalmeccanica. È la città di gloriosi sindaci democratici (su tutti, Richard Daley), è la città di Barack Obama, che qui ha cominciato a farsi notare, a fare campagna elettorale e a celebrare la prima grande vittoria nel 2008. È, soprattutto, la città delle Convention democratiche (quella che si apre domani è la 26esima), che qui nei decenni hanno incoronato importanti presidenti, da Lincoln ai due Roosevelt, da Hoover a Eisenhower.

Ma a Chicago pronunciò l’acceptance speech anche il candidato più sfortunato delle ultime elezioni, quell’Hubert Humphrey che nel 1968 prese il posto di Robert Kennedy, nome in pectore per la sfida contro Nixon e nel frattempo assassinato, come il fratello John Fitzgerald. Quell’estate di 66 anni fa c’era anche la guerra in Vietnam e le proteste pacifiste irruppero nel corso della Convention, rubandole la scena. Insomma, troppe coincidenze con l’oggi: un vice che corre al posto del presidente non ricandidato, una guerra in corso e un forte sentimento pacifista che serpeggia in tutto il Paese e che rappresenta, forse, l’unica vera spina nel fianco nella campagna di Kamala Harris. Per questo, i democratici sperano che le sovrapposizioni si fermino qui.

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