Leonardo Caffo, le filosofie e le violenze - Startmag
Davvero la condanna di Caffo può educare qualcuno? Forse non gli uomini violenti, ma magari può spingere tante donne che ancora non hanno trovato la forza di ribellarsi a farlo. Il commento di Stefano Feltri per la newsletter Appunti.
Colpirne uno per educarne cento: se cercate su Google, troverete due riferimenti per questo slogan che avrete certo sentito spesso. La prima è una attribuzione a Mao Zedong e alla Rivoluzione culturale cinese, una folle politica repressiva che ha fatto x milioni di morti.
Il secondo è all’uso che ne facevano le Brigate Rosse durante gli “anni di piombo”: lo slogan era su un cartello con il quale è stato fotografato il dirigente dell’azienda Sit-Siemens Idalgo Macchiarini, sequestrato nel 1972 dalle Br all’inizio della loro sanguinosa attività.
Dopo la condanna in primo grado a 4 anni per le violenze sulla compagna, il filosofo Leonardo Caffo ha usato una variante di questa formula: “Va bene colpirne uno per educarne mille: io sono stato colpito e speriamo che educhino gli altri mille”.
Caffo poi dice ai giornalisti – che nei corridoi del tribunale di Milano gli fanno le solite domande sceme tipo “come sta?” – che non si sente una vittima, ma quella formula – “colpirne uno per educarne mille” – si usa di solito per indicare chi diventa un simbolo e viene colpito per spaventare altri, colpito ingiustamente.
Su una cosa Caffo ha ragione, la sua storia è diventata un simbolo. Ma di cosa esattamente? Di uno squilibrio di genere e di potere.
Soltanto adesso, dopo la sentenza, la sua ex compagna ha fatto qualche dichiarazione, che certifica questo differenziale di potere e di visibilità:
“Questa sentenza conferma una verità che per quasi due anni ho cercato di far emergere, affrontando innumerevoli difficoltà, sia sul piano personale e legale che mediatico. Queste difficoltà non sono un caso isolato, chiunque denuncia una situazione simile si scontra con un sistema che troppo spesso manca di strumenti adeguati per supportare le vittime”.
Di questa giovane donna non faccio il nome, anche se alcuni giornali l’hanno fatto, perché in questa storia c’è anche un minore di mezzo, la figlia della coppia, che è stata vittima due volte. Delle situazioni che ha vissuto in famiglia, e della traccia indelebile che queste lasceranno su Internet per anni e anni.
La donna avanza anche una sua spiegazione per quello che è successo:
“Le vittime di violenza continuano a pagare il prezzo di una profonda carenza nell’educazione sentimentale e di una cultura ancora permeata di pregiudizi. È fondamentale che questa vicenda serva da spunto per riflettere su quanto ci sia ancora da fare per prevenire e contrastare realmente le violenze”.
Leonardo Caffo è stato recente protagonista della polemica intorno alla fiera Più Libri Più Liberi a Roma: prima invitato a presentare il suo libro sull’anarchia pubblicato da Raffaello Cortina editore, poi spinto a ritirarsi dalla reazione ostile, spiegata anche dal fatto che la fiera era intitolata a una vittima di femminicidio, Giulia Cecchettin.
Nella prima fase è stato difeso dalla direttrice della fiera Chiara Valerio, che si era offerta di presentare comunque il libro, anche in assenza dell’autore, in nome del principio della presunzione di innocenza e della separazione tra il libro e la fedina penale dell’autore.
Dopo una nuova ondata di polemiche e boicottaggi, la fiera ha cambiato approccio: niente più libro di Caffo e spazio invece eventi sul tema della violenza di genere.
I fatti e la sentenzaLa battuta di Caffo su colpirne uno per educarne mille sembra prestarsi a una sola lettura possibile: poiché il filosofo un tempo noto per le sue battaglie progressiste è diventato un simbolo, è stato colpito per educare molti altri uomini, quasi che assolverlo fosse diventato impossibile visto il clima circostante.
Magari questa sarà una strategia difensiva da usare in appello.
In realtà, come ha osservato l’ex compagna, è la vittima – cioè la donna picchiata – che in questa storia ha avuto difficoltà a raccontare la propria versione.
Per molti mesi Caffo ha impostato un inizio di riabilitazione pubblica: interviste, interventi, commenti sui social, dai quali ora è uscito, e infine il libro e l’invito a Più Libri Più Liberi. E tutto questo mentre nelle aule di tribunale si combatteva una battaglia di credibilità: la giovane donna doveva dimostrare la sua credibilità, mentre quella di Caffo veniva certificata dalla sua lenta ripresa di un ruolo pubblico che aveva perso a fine 2023, quando la notizia del suo processo era emersa proprio nei giorni della morte di Giulia Cecchettin e della successiva indignazione intorno alla violenza di genere.
Non conosciamo le motivazioni della sentenza, che ha escluso alcune delle aggravanti, ma sappiamo quello che è emerso nel processo.
Sappiamo per esempio che alla donna è stato rotto un dito, la difesa di Caffo ha provato a sostenere con una perizia che la frattura fosse compatibile con un pugno al muro, mentre i periti indipendenti nominati dal tribunale hanno stabilito che la mano fu “afferrata e contorta”.
Sappiamo che la donna ha raccontato che l’8 aprile 2021 Caffo l’avrebbe spinta in un angolo e picchiata prima con le mani e poi le avrebbe sferrato un calcio violento.
La giudice per le indagini preliminari Ileana Ramundo scriveva che questo racconto era attendibile anche perché “corroborato dalla produzione documentale sanitaria, della copia della messaggistica WhatsApp, delle fotografie ritraenti il mobilio danneggiato dagli scatti d’ira riferiti dalla donna”.
In più, scrive la giudice, si può desumere la violenza del calcio perché in alcuni messaggi Caffo “lamenta un forte dolore al piede con cui aveva colpito la compagna”.
Tutto questo era noto anche prima del processo. La sentenza, che è soltanto di primo grado, doveva stabilire se il racconto dei comportamenti denunciati era attendibile e, nel caso, se questi costituivano reato.
I difensori di Caffo possono continuare a invocare la presunzione di innocenza, visto che per il diritto italiano anche un condannato in primo grado è innocente se presenta richiesta di appello e dunque se la prima sentenza non risulta definitiva.
Anzi, possono fare proprio l’argomento di Caffo: lo hanno colpito a scopo educativo, quasi fosse diventato un testimonial involontario della lotta alla violenza di genere lui che, secondo il tribunale, l’ha praticata.
Però questa sentenza è comunque l’occasione per fare alcuni bilanci in questa vicenda che ha assunto un indubbio valore simbolico.
Tempo di bilanciIl primo bilancio è che Caffo non può presentarsi come vittima. In questa storia ci sono soltanto due vittime, e sono la ex compagna e la figlia.
Caffo ha avuto ampia possibilità di spiegare le sue ragioni, i suoi diritti di difesa sono stati rispettati e ha scelto lui di parlare della sua vicenda anche fuori dal processo in molte occasioni, creando quella commistione tra il suo personaggio pubblico e la vicenda giudiziaria che ora deplora.
Anche su Instagram, che prima ha ripulito dai commenti passati e ora ha chiuso, salvo riaprirlo dopo poco per proclamarsi innocente.
Il secondo bilancio è che la presunzione di innocenza è un principio costituzionale che garantisce a chiunque di non vedersi applicare misure restrittive senza una sentenza. Ma la presunzione di innocenza non stabilisce l’obbligo per il pubblico di ignorare l’emersione di nuovi fatti quando si tratta di farsi un’opinione, e di stabilire la legittimità di qualche figura pubblica ad avere voce nel dibattito.
Una assoluzione di Caffo avrebbe cancellato il dito rotto della compagna?
Caffo ha diritto a ogni garanzia processuale, ma la libertà di espressione vale anche per tutti quelli che possono deplorare quanto emerso in corso del processo, anche a prescindere dall’esito finale.
Il terzo bilancio sta in una frase che ha detto Caffo ai giornalisti che gli chiedevano conto di una certa incoerenza, lui che predicava uguaglianza di genere e inclusione mentre, secondo il tribunale, praticava violenza: “Spero ancora che non ci sia violenza nei confronti delle donne e non vedo ragione di contestare una battaglia così sacrosanta”, dice Caffo.
Questa frase ha una interpretazione ovvia: Caffo, da condannato, non diventa un apologeta della violenza, rimane quello che era, cioè uno che predicava meglio di quanto poi praticava.
Il problema è che la vicenda Caffo è stata usata in modo strumentale da molti giornali e opinionisti di destra sia per denunciare l’ipocrisia di chi predica intransigenza sulla violenza di genere ma fa eccezione per chi è nella giusta tribù, ma anche in modo più sottile per insinuare il dubbio che non si debba credere a certe dichiarazioni pubbliche. Che se Caffo picchiava la compagna mentre predicava inclusione allora tutti quelli che denunciano patriarcato, cultura dello stupro, maschilismo, repressione, intolleranza sono da trattare come ipocriti potenziali. Chissà quanti Caffo ci sono.
Tra i tanti danni di questa vicenda c’è anche questo, aver insinuato il sospetto che certe battaglie radicali per l’uguaglianza siano soltanto un posizionamento commerciale.
Per fortuna, c’è anche un altro modo di leggere questa storia: una donna vittima di violenze domestiche trova il coraggio di denunciare, la giustizia segue il suo faticoso percorso e, anche se l’uomo dal quale veniva minacciata era noto e pieno di amicizie influenti, alla fine quella donna viene tutelata da un tribunale.
In un certo senso, davvero la condanna di Caffo può educare qualcuno. Forse non gli uomini violenti, ma magari può spingere tante donne che ancora non hanno trovato la forza di ribellarsi a farlo. Sarebbe l’unica conseguenza positiva di una storia triste e dolorosa.