Mamma Silvia: «A 3 anni mia figlia ha avuto un neuroblastoma. Tra ...

11 ore ago
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«Nella nostra storia c’è dentro tutto: dolore, rabbia, sconforto, ma anche forza, speranza e coraggio». Silvia Sponchiado ha 37 anni, è un’insegnante di scuola primaria, viene da Quarto d’Altino, in provincia di Venezia, e al telefono mi parla dell’esperienza di malattia di sua figlia Lucia, 7 anni il 27 luglio scorso.

A seguito di un tumore infantile tra i più diffusi, il neuroblastoma, diagnosticato all’età di 3 anni, la bambina è stata curata all’oncoematologia pediatrica dell’ospedale di Padova, dove ancora oggi viene monitorata con controlli ogni tre mesi, «andati bene» e con esiti che infondono fiducia.

Da quell’esperienza e dai pensieri che non riusciva più a tenere dentro è scaturito Con i miei occhi. Non si può controllare ciò che è imprevedibile, un libro, o meglio, una sorta di diario, pubblicato per dar voce a tutte quelle parole che non riusciva a dire, per dar conforto a tutti quei genitori che quotidianamente si trovano ad affrontare situazioni di malattia a carico dei propri figli e anche per aiutare: parte del ricavato serve infatti a sostenere l’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma, impegnata da oltre trent’anni a promuovere progetti per cure sempre più personalizzate ed efficaci. «A un certo punto, dopo lo shock iniziale del non voler accettare la malattia di mia figlia, ho sentito di dover reagire, avevo bisogno di trasformare qualcosa di doloroso in qualcosa di altro, in qualcosa di utile per la ricerca, affinché quello che è successo a mia figlia, non succeda più a nessun altro bambino».

Il neuroblastoma, infatti, è un tumore solido extra-cranico che colpisce generalmente in età prescolare; è la prima causa di morte per malattia entro il primo anno di vita ed è il terzo tumore pediatrico per frequenza dopo le leucemie e i tumori cerebrali. «Oggi le possibilità di cura del neuroblastoma ad alto rischio si attestano intorno al 40% a cinque anni dalla diagnosi», sottolinea la dottoressa Sara Costa, presidente dell’Associazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma. «Significativi miglioramenti sono stati ottenuti grazie a un percorso terapeutico assai complesso e impegnativo, ma tale percentuale non può essere considerata soddisfacente, soprattutto se confrontata con quelle di altre patologie neoplastiche dell’età pediatrica. Inoltre, per i neuroblastomi ad alto rischio recidivi la percentuale di sopravvivenza si riduce sensibilmente passando a circa il 10%, non essendo oggi disponibili schemi terapeutici efficaci».

Da qui l’importanza della ricerca scientifica, sostenuta dall’associazione con diverse iniziative, come la campagna di Natale Dono Ricerca. RiDono la vita: pensieri solidali – dai panettoni alle tisane, passando per i decori natalizi -, che si possono scegliere sul sito www.neuroblastoma.org, sezione ANB STORE, alla voce «Per il tuo magico Natale 2024».

Accanto alle iniziative di solidarietà sempre attive, quella personale di mamma Silvia: «Ho iniziato a scrivere questi pensieri quando ero in ospedale con mia figlia, nel pieno della nostra battaglia, quasi per timore che il tempo potesse mitigare quel dolore che ti travolge. Ma presto ti rendi conto che il cuore e la mente non potranno mai dimenticare, semplicemente perché si adattano a un nuovo modo di vivere la quotidianità».

Le va di cominciare dal principio?
«La diagnosi è arrivata nell’estate 2020, due giorni dopo il terzo compleanno di Lucia. L’estate precedente ci eravamo accorti di alcuni linfonodi ingrossati dietro il collo, ma non aveva sintomi particolari, nessun malessere. Facendo dei controlli però, sembrava che qualcosa non quadrasse, però non vi era nessuna urgenza. Fino a che non è arrivata la diagnosi: neuroblastoma, anche se i medici sospettavano un altro tipo di tumore. A inizio agosto 2020 ha iniziato subito le terapie, così noi ci siamo trasferite in ospedale, mentre a casa lasciavo gli altri due miei figli Chiara, gemella di Lucia, e Federico, che ai tempi non aveva nemmeno 1 anno, con mio marito Francesco. Una cosa del genere ti cambia per sempre la vita».

In che modo questa diagnosi ha spostato gli equilibri della vostra famiglia?
«La chemio ha cominciato a fare perdere peso e capelli a mia figlia Lucia, e io pur sentendomi impotente di fronte a tutto questo, non potevo far altro che accettare il percorso, perché sentivo che la rabbia non avrebbe aiutato né me né lei. Mentre invece mio marito esteriormente non manifestava nulla, ma dentro aveva una collera, legata alla difficoltà di comprendere il perché di tutto quel dolore. A Chiara, legatissima alla sorellina, spiegammo che Lucia doveva far sparire delle palline sul collo e che quindi per un po’ non sarebbe rimasta a casa con lei, mentre Federico, essendo ancora piccolo, si era adattato al fatto che potessi essere assente da casa».

E Lucia, pur essendo molto piccola, come l’ha vissuta?
«Di Lucia mi ha colpito l’intrinseca saggezza, come se sapesse già: era molto tranquilla di fronte all’evoluzione della sua malattia. Nonostante gli interventi subiti - l’ultimo dei quali quello avvenuto nel febbraio 2021, con il trapianto delle nuove cellule staminali, che ha determinato l’inizio della sua seconda vita, cui son seguiti 6 mesi di immunoterapia, con circa 15 giorni di ricovero in ospedale, ogni tre settimane -, lei sembrava consapevolmente serena. O meglio, più sapeva cosa le stava per succedere, più si calmava: spiegarle in modo semplice, con parole adatte alla sua età, tutto quello che le succedeva, l’ha aiutata molto a gestire il decorso della sua malattia. La consapevolezza l’ha spronata a tirar fuori le sue risorse».

E invece a lei cosa l’ha aiutata?
«Scrivere, mettere nero su bianco le emozioni è stata una valvola di sfogo non indifferente. Se le lasci dentro ristagnano e basta un niente per riportarle fuori in modo incontrollato. Invece, guardarle in faccia mi ha aiutata a intravedere una speranza. E poi il modo in cui Lucia ha reagito, mi ha dato la forza di andare avanti. Mi dicevo: «Se ce la sta facendo lei, ce la devo fare anche io». Fondamentale, infine, l’aver fatto squadra con mio marito Francesco: i ricoveri li ho voluti fare tutti io, per stare accanto a Lucia, prendendomi l’aspettativa sul lavoro, ma lui c’era sempre, sempre presente in ospedale e a casa, con i nostri bambini. Ne siamo usciti ancora più forti».

Crede in Dio, Silvia?
«Ci credo, eccome. Nel momento della diagnosi, la disperazione e la rabbia sono state quelle di una madre che si è chiesta: «Perché a noi?». Ma poi, prendendo consapevolezza del percorso e dell’amore che c’era, mi son data la risposta: perché avevamo le risorse per poterla gestire, perché poi c’è una Provvidenza che ti aiuta a rimettere tutto nella giusta prospettiva. E perché io potessi diventare una risorsa per aiutare altri genitori nella nostra situazione».

L’hanno contattata in tanti, dopo la pubblicazione del suo libro?
«Sì, si è creata una rete di salvataggio e con alcune mamme siamo ancora in contatto. Son sincera: ho cominciato a scriverlo per me stessa, per trovare la forza che credevo perduta. Dopo mi son detta che tutto quel dolore non poteva essere solo mio, e così è nata l’idea di metterlo a servizio di tutti coloro che potevano trovarci uno specchio o una parola di conforto. Chiaro: ogni persona è diversa e affronta e gestisce il dolore in modo differente. Ma a un certo punto, credo sia possibile, anzi necessario, trasformare quel dolore in una nuova forza motrice, perché dopo aver vissuto, visto e toccato con mano un’esperienza simile senti la necessità di riprendere fiato in superficie. È questione di tempo, ma ciò che dico sempre agli altri genitori è che, ognuno coi propri tempi, si riesce sempre a trovare la chiave giusta per uscire e affrontare quel dolore che ti toglie il fiato».

Oggi sua figlia Lucia come sta?
«Sta bene, grazie al Cielo. A scuola è un vulcano di energia, ma non è in classe con Chiara: su richiesta delle sue insegnanti, hanno voluto metterle in due classi separate, per permettere alle due sorelline di trovare una loro identità, considerato che Chiara era diventata molto protettiva nei confronti di Lucia, mentre Lucia è già più indipendente e autonoma. Ogni tre mesi fa i suoi controlli, ha un occhio più piccino dell’altro, ma va bene così. Lei ricorda tutto, e forse è questa la sua forza: aiuta i suoi compagni nella gestione dei piccoli problemi della loro età, è già un punto di riferimento. L’abbiamo chiamata Lucia inconsapevolmente, ma forse perché era già scritto che avrebbe portato una luce diversa nel mondo».

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