Il discorso di Netanyahu al Congresso e la maestria della messa in ...
Molti anni fa, quando la mia base di inviato per Il Messaggero era Gerusalemme, la Rai-tv, che non aveva ancora una sede in Israele, mi chiese di intervistare Benjamin Netanyahu. L’incontro era stato già concordato tra i colleghi di Roma e l’ufficio dell’uomo politico israeliano. Avevano stabilito la data e mi inviarono qualche domanda. Altre dovevo formularle io, che già conoscevo abbastanza bene l’attuale premier. Un incontro tranquillo. Un momento politico, per Israele, relativamente calmo. Netanyahu non era sotto pressione ma, prima di lasciare il suo ufficio – l’operatore della Rai era già uscito – mi bloccò.
“Eric!”, mi chiamava per nome. Qualche volta – come era abitudine per molti della stampa – mi rivolgevo a lui con il suo diminutivo “Bibi”. “Aspetta un momento, mi fai una cortesia? Vorrei vedere il filmato dell’intervista”. Esitai – la richiesta era insolita ma aggiunse rapidamente: “Domande e risposte vanno bene ma qualcuno dice che gesticolo troppo con le mani e che non si dovrebbe fare. Specialmente negli incontri con la stampa o quando si parla al pubblico. Specialmente negli Usa. Voglio solo capire se sono riuscito a controllare le mie gesta o se continuo a muovere mani e braccia”. Gli feci avere il filmato.
Ho raccontato questa storia altre volte ma vale la pena ricordarla per spiegare come è frutto di Netanyahu anche la scenografia studiata nei minimi particolari che ha accompagnato ogni parola del premier nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti.
Aveva le mani quasi attaccate al podio. Le muoveva poco. Solo per voltare pagina e passare foglio dopo foglio da un pacco di carta a un altro. Gesta studiate e imparate in tanti anni sulla scena internazionale. Frasi e concetti brevi, una dopo l’altra, ma con pause scelte per consentire al pubblico – congresso e senato – in platea di alzarsi in piedi e applaudire. In un settore della balconata, in alto alla sinistra dell’invitato d’onore, c’era molto più di una claque portata da casa. La moglie del premier svolgeva il compito di gestire le mosse imposte alle comparse.
“La prima metà del suo discorso è stata dedicata alle storie dell’eroismo dei soldati israeliani il 7 ottobre e ai dettagli grafici della bestialità di Hamas in quel giorno”, ha notato Anshel Pfeffer, suo biografo e giornalista del quotidiano israeliano Haaretz. “Ma mancava così tanto da quel racconto. Niente su come i concetti strategici di un primo ministro che aveva guidato il suo paese per 15 anni si siano sbriciolati quel giorno. Niente sui fallimenti che hanno permesso a Hamas di uccidere e rapire gli ostaggi a volontà. O sul suo rifiuto di formare una commissione d’inchiesta”.
“Ha lodato i soldati dell’IDF che hanno combattuto il 7 ottobre come “non piegati, imperterriti, senza paura”, e naturalmente i soldati portati a rappresentare l’IDF erano un paracadutista etiope-israeliano e un sergente maggiore beduino. Sono davvero degni di riconoscimento, nonostante la palese scelta di Netanyahu, come rappresentativi delle diversità che si incontrano nella popolazione israeliana. Ma il premier deve ancora trovare il coraggio di incontrare una qualsiasi delle comunità di kibbutz devastate quel giorno”.
Dal punto di vista di Netanyahu, il discorso è andato bene. Gli applausi abbondanti, come voleva, anche se lentamente scemavano soprattutto verso la fine quando ha chiesto agli alleati americani di mandare ancora armi “per finire il lavoro”, ossia distruggere Hamas. La sceneggiatura ha funzionato e pochi hanno osservato, specialmente in Israele, il fatto che un centinaio di posti erano vuoti perché i loro titolari avevano scelto di boicottare l’evento. Pochi hanno sentito o visto le proteste anti-israeliane o anti-Netanyahu che si svolgevano fuori dal grande edificio bianco del Congresso.
Israele resta amico e alleato degli USA e Netanyahu, per ora, va avanti con la sua guerra contro Hamas. Una guerra con poche vittime palestinesi civili, ha insistito senza nemmeno prendere in considerazione le cifre ufficiali delle autorità civili di Gaza: dal 7 ottobre a oggi almeno 39.175 palestinesi sono stati uccisi e 90.403 sono stati feriti. E, quasi come conclusione ad effetto, “Bibi” ha fatto capire, senza molti giri di parole, che per il bene di tutti, Israele chiede all’amministrazione americana – quella di oggi o quella che uscirà vittoriosa dalle elezioni del prossimo novembre – il via libera ad attaccare l’Iran e distruggere il regime degli Ayatollah. L’America, ha detto, dovrebbe essere riconoscente a Israele perché è disposta a eliminare le minacce ai due paesi senza costringere i soldati americani a mettere i piedi a terra in Medio Oriente.