La vicenda di Orbassano ci dice che bisogna imparare a parlare di ...
Due genitori si tolgono la vita a due anni di distanza dal suicidio della propria unica figlia. Una catena di morti che oggi sono una notizia di cronaca proveniente dal Piemonte e che mette radici in uno dei segreti di famiglia più tremendi e difficili da affrontare, anche oggi nel terzo millennio. Tutto nasce da un abuso sessuale vissuto in infanzia e tenuto nel segreto da Chiara, bambina che poi diventa adolescente e poi giovane donna, che studia medicina e si prepara alla sua vita adulta. È in quel momento, che la memoria traumatica si riattiva e genera attacchi di panico e dolore, tale da diventare incompatibile con la capacità di sopravvivere ad esso. È per questo motivo che Chiara, a 28 anni si è tolta la vita, nonostante fosse una giovane donna piena di sogni, desideri e speranze, uccisi però da un dolore incontenibile. Il dramma della ragazza era stato scoperto dai genitori leggendo un diario lasciato aperto quasi per caso.
Un abuso sessuale è un’ombra sul cuore. Può stare lì tutta la vita e diventare un peso con cui, quasi sempre nel silenzio, si impara a convivere. Oppure, può all’improvviso, trasformarsi da ombra in buio e oscurare tutto, togliere luce e far precipitare in un abisso di dolore da cui è faticoso emergere. La stessa Chiara aveva detto ai suoi genitori: «Sarebbe meglio il cancro: quello potrei toglierlo, questo no». La storia di abuso sessuale subita da Chiara ha molti punti in comune con tante altre di questa natura: l’abuso è stato agito da un familiare della vittima, ora deceduto. Una persona insospettabile che approfittando della vicinanza alla bambina e della fiducia goduta nella famiglia allargata ha compiuto su di lei violenza. I bambini vittime di abuso sessuale crescono spesso con un vissuto di impotenza e colpa la loro vittimizzazione, qualcosa che cresce dentro di loro – se non affrontato con una terapia adeguata – arrivando, a volte, ad intaccarne le competenze emotive, affettive, socio-relazionali. Non hanno potuto fare nulla per fermarlo, perché nessuno – quando sei bambino – ti fornisce la strategia di prevenzione primaria necessaria in questi casi, basata sulle tre competenze del “Dico no, scappo via, corro a dirlo a qualcuno”. Gli adulti non insegnano queste tre regole salvavita, perché temono che spiegare cos’è un abuso sessuale ad un bambino significhi spaventarlo o renderlo sfiduciato nei confronti degli adulti che gli sono accanto. Invece, semplicemente, spiegare tutto questo ad un bambino lo aiuta ad essere competente nei casi in cui qualcuno gli faccia sperimentare un forte disagio associato al modo in cui interagisce con il suo corpo e connota sessualmente le relazioni con lui/lei. In questo caso specifico, un parente ha abusa di una bambina, nessuno si è accorto di nulla, tranne la vittima e il suo carnefice. Così quell’abuso è diventato una questione di “parole non dette” e dolore nascosto che improvvisamente ha eruttato come un vulcano con ansia e attacchi di panico, insonnia e incubi. Chiara aveva trovato buoni terapeuti che l’avevano supportata, ma anche l’aiuto professionale nel suo caso non è bastato a salvarla da quell’ombra sul cuore diventata un mostro che l’ha risucchiata nelle sue spire.
E ora, la morte dei suoi genitori, ci ricorda che ci sono dolori a cui è davvero difficile sopravvivere. Che ci entrano dentro e diventano tarli che si mangiano tutto fino ad annullarci. Da terapeuta, però, so quanto è fondamentale in casi come questi aiutare chi ci legge a fermare i propri pensieri. Ci sono dolori che sembrano insormontabili, ma che possono essere attraversati e trasformati in altro. Ciò che ci fa soffrire non può essere cancellato, ma si può imparare a lasciare il passato nel passato, evitando che diventi un contaminatore instancabile del nostro presente fino a farci credere che non abbiamo diritto al futuro. Non è così, anche quando il dolore e l’angoscia sembrano l’unica compagnia delle nostre giornate. E la vittimizzazione sessuale può trasformarci in “survivors” capaci di rimettere le pedine al giusto posto sulla scacchiera della propria esistenza. Perché essere vittime di abuso non vuol dire stare dalla parte sbagliata della vita. La vittima quasi sempre soffre perché si sente in trappola dentro alla propria vicenda di vittimizzazione. Ma non è così: l’unica persona davvero in trappola è l’abusante. E questa trappola diventa prigione se chi subisce l’abuso impara a denunciare il proprio carnefice. Perché questo accada occorre però fare prevenzione, sensibilizzazione e imparare a parlare di temi che sono così spaventosi, da renderci spaventati e quindi “muti”. “Meglio non parlare di certe cose”: è questo, purtroppo, il pensiero della maggioranza. Ma la storia, tremenda e dolorosa di Orbassano, è lì a dirci l’esatto contrario.