A Palazzo Abatellis di Palermo un un confronto tra Picasso, Guttuso ...
È un teatro del sacro e del dolore quello che va in scena a Palazzo Abatellis, nell’esercizio a volte sorprendente della ricostruzione storica e dell’osservazione critica, della pura suggestione e dell’affannosa ricerca di fonti e dati. Tre atti, per una drammaturgia tragica che attraverso tre opere sintetizza la potenza della grande pittura. Pablo Picasso (Malaga 1881 – Francia 1973), Renato Guttuso (Bagheria 1911 – Roma 1987), il maestro del Trionfo della Morte. Un dialogo possibile, se è vero che lungo il tempo circolare della ricerca e nello spazio inesauribile della poesia, i pittori non fanno che tramandarsi visioni, scambiarsi ispirazioni, interrogarsi su questioni. Tutto è connesso, incluso l’invisibile, il non scritto, ciò che si consuma tra gli sguardi, il lavoro e le biografie. Vicende da ricostruire, come quella che, attraverso cinque secoli, suggerisce una serie di risonanze: tre artisti, immagini incrociate, un’ipotesi da cavalcare facendone racconto, apparizione.
Il Trionfo della Morte, capolavoro dell’Abatellis a PalermoFulcro della storia è il Trionfo della Morte di Palermo, capolavoro quattrocentesco di mano sconosciuta, in cui si legge l’evoluzione del tardo gotico d’area catalana e fiamminga, alle soglie del Rinascimento. L’opera giganteggia sull’alta parete di una piccola sala di Palazzo Abatellis, l’abside della cappella cinquecentesca costruita nell’edificio dai religiosi domenicani, dopo la morte di Francesco Abatellis che, in assenza di eredi, lo aveva donato alla Chiesa. Progettato dall’architetto Matteo Carnalivari come dimora del ricco funzionario, il palazzo divenne nel 1954 sede della Galleria nazionale d’Arte medievale e moderna di Palermo, con il celebre allestimento disegnato da Carlo Scarpa.Dove un tempo c’era l’altare, svetta l’enorme rappresentazione apocalittica con l’intreccio policromo dei corpi travolti dalla morte scheletrica a cavallo. È qui che Scarpa volle collocare l’affresco, per cinque secoli custodito nell’atrio dell’ex Ospedale di Palazzo Sclafani (dove fu dipinto poco dopo il 1441); staccato nel 1944 per ragioni di tutela e infine trasferito nel nuovo museo. In questo scrigno religioso, preferito alle più ampie sale espositive, l’opera, visibile anche dall’alto della balconata, risulta ulteriormente valorizzata: saturando e dominando lo spazio.
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Di Trionfi della Morte se ne dipinsero parecchi in Europa, fra il Trecento e il Cinquecento. Fu un vero e proprio genere, imbevuto di riferimenti biblici, dal mito del Giudizio Universale ai disastri fantastici narrati nei libri di Ezechiele e Zaccaria, fino alle pagine – incredibilmente sovrapponibili – dell’Apocalisse di Giovanni: “Ed ecco, mi apparve un cavallo pallido. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra“. I Trionfi anticiparono la peste nera del 1348, dopo la quale trovarono nuovo vigore, incarnando il trauma collettivo e in qualche modo consentendone l’elaborazione.La magistrale prova dell’anonimo siciliano tocca vertici altissimi di drammaticità visionaria, costruendo intorno alla raffigurazione della morte un movimento circolare e dinamico di masse intrecciate, personaggi dalle vesti ricercate e variopinte, in contrasto con i volti ormai lividi: sono tutti aristocratici, notabili, religiosi, abbattuti dall’impietoso cavallo-metafora, qui proposto in un’innovativa versione ossificata, come mostruosa creatura d’oltretomba. Un “tableau vivant” che è quadro morente, morte in azione e spettacolare concentrazione di pathos, mentre il terrore del giudizio è sisma, geometria convulsa, energia centripeta e inarrestabile, nell’eterna durata dell’azione scenica, che rimanda all’infinito la fine delle cose.
Picasso e la morte in GuernicaIl Trionfo dell’Abatellis è un’opera sprofondata nella luce dell’enigma; non solo per la mancanza di informazioni sull’autore ma anche per complessità, ricchezza di dettagli, modernità e internazionalità del linguaggio pittorico che continuano a stimolare riflessioni critiche e studi iconologici. Da qui parte Attraversamenti, a cura di Serena Baccaglini, Marco Carapezza, Maddalena De Luca. Una mostra contenuta ma che guarda lontano e in profondità, visitabile fino al 2 marzo 2025. Alla base una domanda: Pablo Picasso guardò all’affresco palermitano per elaborare la sua Guernica? Ipotesi seducente, persino vertiginosa dinanzi all’assenza di documenti che ne possano confermare un qualche fondamento.Guernica fu dipinta a Parigi, in soli due mesi, su commissione del Governo Repubblicano Spagnolo. Appena in tempo per presentarla all’Esposizione internazionale parigina, tra maggio e novembre del 1937, nel padiglione Spagna. L’ispirazione arrivò improvvisa, all’indomani dei bombardamenti sulla città spagnola di Guernica, ordinati dai franchisti ed eseguiti dai nazifascisti il 26 aprile del 1937. Picasso restituì in 27 metri di tela lo scempio in bianco e nero dell’ennesima strage di civili. Distrutte le regole prospettiche, asciugate le forme, scomposti i volumi lungo il piano, Picasso mise in scena il caos, la devastazione, l’urlo agghiacciante di fronte al male insensato della guerra e alla follia dei nazionalismi. Un quadro poetico, politico, pieno di lucido struggimento. Guernica divenne simbolo del lato più oscuro e violento del Novecento, immagine universale di denuncia e di compassione.
Attraversamenti, Palazzo Abatellis, 2024, exhibition viewGuernica e l’accostamento con il Trionfo della Morte a PalermoPablo Picasso non visitò mai a Palermo: non ammirò da vicino l’affresco, mentre aveva certamente visto più volte il Trionfo della Morte di Bruegel Il Vecchio, conservato al Prado di Madrid. Il maestro delle Fiandre viaggiò a lungo nel Sud Italia e il suo Trionfo rivela l’influsso di quello palermitano, fuso però con la tradizione delle danze macabre nordiche e rielaborato con un diverso approccio narrativo. Bruegel asciuga la componente tragica e scioglie la compressione spaziale delle figure in un brulicare infernale di dettagli, con un più ampio taglio visivo.Ma a lasciar parlare le immagini, è evidente che il dipinto di Picasso debba molto di più all’impostazione del Trionfo siciliano, che non a quello fiammingo. Le similitudini compositive saltano agli occhi, nella restituzione di una strage collettiva come convulsa azione teatrale, nell’incastro ultra dinamico, compresso e ravvicinato delle figure, nell’ardente e geometrica declinazione di una morte che risucchia intorno a sé il tempo, lo spazio, il reale. E naturalmente nel ritorno di quel cavallo centrale, che dall’affresco quattrocentesco sembra risorgere nel capolavoro del genio catalano, come simulacro cubista: dal destriero cavalcato dalla morte a un povero animale travolto nell’eccidio. Difficile non restare sbalorditi dinanzi alla somiglianza tra le due teste: le fauci spalancate, la vista brutale dei denti e della lingua, la struttura ossea del cranio, la durezza dei tratti. Con la crudeltà di una pittura che svuota le forme, le schianta, le disarticola, le pietrifica, trasformando il soggetto in oggetto inerte e simbolico.Vero è che Picasso non dichiarò mai nulla in proposito, nessun testo, studio, lettera o disegno sono stati rinvenuti a testimonianza di questa suggestione. Eppure, come una verità sussurrata, impalpabile, l’ipotesi non smette di accendere l’immaginazione.
Jacqueline de la Baume Dürrbach e Pablo PicassoL’arazzo di Guernica a PalermoLa mostra all’Abatellis consente una verifica ravvicinata. In assenza dell’inamovibile tela del Reina Sofia, l’intuizione è di presentarne una singolare versione, per la prima volta esposta in Italia. Si tratta di uno dei tre arazzi intessuti dalla talentuosa Jacqueline de La Baume Dürrbach. Picasso vide le sue elaborazioni di dipinti cubisti, restituiti con esattezza e interpretati con personalità e chiese al collezionista Nelson Aldrich Rockefeller di commissionarle una versione di Guernica, di cui egli avrebbe autorizzato tre esemplari. Così la Dürrbach studiò da vicino l’opera nel 1955, durante l’esposizione al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Picasso realizzò per lei un cartone preparatorio; una fedele copia del dipinto su carta da pacchi, da usare come guida per il telaio che scoperta molti anni dopo dalla studiosa Serena Baccaglini, fu esposta nel 2017 a Palazzo Giustiniani, sede della Presidenza del Senato.Il primo arazzo venne acquistato dalla famiglia Rockfeller che nel 1984 lo concesse all’ONU, nel cui Palazzo di Vetro a New York è esposto. Il secondo, realizzato nel 1976, è allestito oggi Palazzo Abatellis, nella sala che conduce al Trionfo della Morte. Le due opere si guardano, si specchiano, facilitando il raffronto e concretizzando per la prima volta questo dialogo ideale. Cromaticamente più fedele all’originale, il raffinato esemplare venne acquisito nel 1979 dalla Société Schongauer per il Musée Unterlinden di Colmar. Il terzo fu intessuto nel 1983 e acquistato nel 1996 dal Gunma Museum of Modern Art di Takasaki, in Giapponese.
Ma c’è un anello di congiunzione, in questa storia di teorie non comprovate e di segrete parentele. Tra i due capolavori c’è un terzo artista, amico intimo e grande stimatore di Picasso, a cui aveva dedicato diversi scritti critici e da cui era stato fortemente influenzato. Guernica e il Trionfo della Morte furono per Renato Guttuso una straordinaria fonte di ispirazione, una dolce ossessione su cui non finì mai di ragionare. Li amò, li studiò, li citò più volte nei suoi dipinti, e da sempre ne avvertì la somiglianza, una convergenza intima che il suo occhio sensibile e colto, la sua intelligenza pittorica, sentivano come necessaria.Due disegni esposti a Palermo sono sintesi e simbolo di questa relazione: lo Studio per la testa di cavallo di Picasso dal Reina Sofia, Disegno preparatorio per Guernica (1937); e, a fianco, una china su carta di Guttuso che funge da connettore: Due teste di cavalli. Studio per Guernica come Trionfo della morte, 1983.Nel 1940, in uno dei suoi Appunti pubblicati sul periodico Il Selvaggio, l’artista bagherese scriveva: “È l’unione interna, l’identità di movimenti plastici che è sorprendente. Anche se Picasso conosce questo Trionfo di cui parlo e che è però, a ben guardarlo, veramente singolare e di rapporto solo esterno con gli altri Trionfi, quello di Pisa, quelli catalani, spagnoli ecc., egli è così profondamente entrato nell’ingranaggio poetico di quel dramma da averne prodotto uno equivalente“.Siamo ancora nella fase della supposizione: “anche se Picasso conosce questo Trionfo“, scriveva Guttuso. Oltre quarant’anni dopo, nel 1986, avrebbe sciolto il dubbio in una lunga, splendida analisi del Trionfo di Palermo, pubblicata su Illustrazione italiana: “certamente il quadro è stato realizzato su schemi gotici internazionali: ma vi circola uno spirito siciliano, una ‘mano siciliana’ lo ha compiuto. Basta pensare al senso del tragico che vi circola (…) Lo conosco bene il dipinto. Lo ho molto amato. E lo ho pure copiato, diverse volte, nei particolari e nell’insieme“. Quella mano siciliana, imbevuta di tragedia greca, tornava in Guernica. “Ho fatto anche un grande disegno, una sorta di incrocio tra questo ‘Trionfo della morte’ e ‘Guernica’ di Picasso, che indubbiamente è un’opera ispirata ai trionfi gotico-catalani… Un giorno, parlai con Picasso: conosceva l’affresco, non direttamente ma da illustrazioni. Anche lui non credeva che fosse di origine catalana“.È tutto ciò che abbiamo. Tra il 1940 e il 1986 un confronto sul tema tra i due artisti evidentemente ci fu. Guttuso chiese, Picasso confermò. Stando a questa unica, scarna testimonianza – consultabile in mostra su un dispositivo digitale, insieme ad altri testi e documenti – il maestro spagnolo aveva conosciuto (se pur a distanza) l’affresco medievale. E Guttuso ne è certo: lo introiettò e lo metabolizzò a tal punto da vederlo affiorare nella sua grande opera del ’37, riconoscendovi qualcosa della ferocia contemporanea, persino del proprio stesso spirito, che in un articolo sul quotidiano L’Ora Guttuso stesso aveva definito “malinconico e drammatico (…) violento e carezzevole insieme“, eppure pronto a porsi dinanzi all’oggetto “colla freddezza del chirurgo“. Picasso geniale costruttore di immagini, capace di sentire il dramma e di tradurlo in architetture perfette, audaci, dissonanti.
La stessa tragedia, la stessa commossa concitazione, la stessa spinta dinamica e decostruttiva anima il terzo capolavoro in mostra. Un dipinto che è punto di convergenza, ponte tra gli altri due. È la Crocifissione di Guttuso (1941), dal 1986 nelle collezioni della Galleria Nazionale: uno dei dipinti italiani più significativi del ‘900. All’artista valse il soprannome di “pictor diabolicus“, vista l’irriverenza di una scena lontanissima dalla tradizionale iconografia religiosa, moralmente scandalosa per la Chiesa e per un pubblico conservatore.La composizione, attorcigliata intorno alle verticali della croci e del corpo candido di Maddalena, alla superficie obliqua della natura morta in primo piano – un arsenale di oggetti del supplizio e del martirio – e ai musi contrapposti dei cavalli, slitta in molteplici direzioni, va in frantumi, precipita verso il fondo di case e macerie, cuce e ritaglia cromie feroci. Eppure si tiene, grazie all’unità di una pittura solida, satura, ieratica. Così Guttuso stesso descrisse l’opera nel 1940: “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni. Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati… ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee… le croci (le forche) alzate dentro una stanza. I soldati e i cani le donne scarmigliate, discinte, piangenti al lume di candela (la candela di Guernica?). Gente che entra ed esce… oppure puntare al contrasto. Il supplizio tra il popolo con giocolieri e soldati. Circo e massacro“. La splendida macchina delle forme e dei colori diventava strumento e sostanza di una storia universale, tanto che il soggetto biblico, al di là delle consuetudini iconografiche, risorgeva come pittura, semplicemente pittura, pur non perdendo la propria cifra tragica, comune ad ogni angolo minuto di realtà: l’obiettivo, scrisse l’artosta in un testo del 1942 (“Paura della pittura”), era dipingere “una crocifissione che sembri una natura morta e una natura morta che sembri una crocifissione” perché “ciò è capitato a ogni vera pittura, dai bizantini a Caravaggio, a Picasso“. E ancora, a proposito dei soggetti e del modo di rappresentarli: “Li dipinsi nudi per sottrarli a una collocazione temporale: questa, mi veniva da dire, è una tragedia di oggi, il giusto perseguitato è cosa che soprattutto oggi ci riguarda. Nel fondo del quadro c’è il paesaggio di una città bombardata: il cataclisma che seguì la morte di Cristo era trasposto in città distrutta dalle bombe”.La Crocifissione è una spietata allegoria della morte e della violenza del potere, in cui l’influenza della composizione picassiana è evidente. A Guernica rimandano i cavalli, l’accenno ai bombardamenti, la vocazione politica, ma il Trionfo di Palermo continuava a essere il riferimento primo e più alto, l’inevitabile ossessione di colui che, scansando “cronaca, decorazione, illustrazione“, sa che nell’impasto di vita e di morte occorre affondare gli occhi e le mani. “Il vero pittore” scrisse l’artista sulla rivista Primato nel 1941 “si butta nella vita perché questo è il campo dei suoi mezzi d’azione. È a questo contatto che il suo destino d’uomo diventa pittura. (…) Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata. Intendo dire che non è necessario per un pittore essere d’un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa“.
Giacomo Brogi, Trionfo della Morte (part.) – Palermo, Palazzo Sclafani, 1855-1919. Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo FrizzoniLa pista delle fotografie. Picasso e le sue fonti iconograficheL’anello mancante di questa tessitura resta quell’immagine del Trionfo di Palermo che Picasso avrebbe avuto modo di vedere. E che forse lo influenzò nei giorni di Guernica. Le ricerche per la mostra all’Abatellis hanno in tal senso aperto una via. Quell’immagine, forse, era una fotografia. Una delle oltre 15.000 rinvenute nel suo studio e alla sua morte donate al Museo Picasso di Parigi. Fotografo egli stesso, il maestro di Malaga usava spesso come spunti per i suoi lavori le foto e le cartoline accumulate. Ne è convinta Anne Baldassari, ex direttrice del museo parigino, che sul rapporto tra Picasso e il medium fotografico ha lavorato a lungo.Si scopre dunque che quel patrimonio, ancora in fase di catalogazione e digitalizzazione, contiene un Album de photographies d’oeuvres d’art des maitres ancien, foto di opere d’arte del passato, realizzate a fini divulgativi da fotografi-editori tra ‘800 e ‘900, come i fratelli Alinari e Domenico Anderson. Due nomi che tornano, compulsando i cataloghi di foto storiche del patrimonio artistico siciliano: a loro, oltre che a Giacomo Brogi, si devono diversi scatti dedicati al Trionfo della Morte di Palazzo Scalafani, diffuso su scala europea grazie alle suggestive fotoriproduzioni.Non sono presenti in mostra, a completamento del corpus espositivo, alcune di queste testimonianze d’epoca. Un’ulteriore tessera del mosaico che avrebbe supportato anche visivamente la narrazione. Certo è che la ricerca andrà avanti. Quella fotografia potrebbe essere sfuggita, non ancora catalogata, finita fuori posto; o potrebbe essere stampata in uno dei tantissimi volumi posseduti dall’artista, per non parlare dei circa 200.000 documenti di ogni sorta, incluse migliaia di lettere, buste illustrate, album, scatole, appunti, molti mai visionati, che nei prossimi anni il Museo Picasso conta di inventariare grazie al progetto per il costituendo Centro Studi Picasso. Nella sinergia tra l’istituzione siciliana e quella parigina potrebbe scriversi l’ultima pagina di questa avvincente storia, procedendo sulle tracce seminate da Guttuso. Ma soprattutto continuando a fidarsi delle opere, ad ascoltarle, a lasciarne venire il senso profondo, laddove risuona – prima della verifica scientifica e documentale – la verità dei segni, delle forme, delle connessioni. L’enigma dell’affresco di Palermo dischiude altri enigmi e continua ad incantare: creatura senza tempo, senza autore, senza eguali, così audace e innovativa da aver squarciato il piano della storia, giunse cinque secoli fa da chissà dove, per ritornare in forme nuove negli occhi di grandi artisti, poeti, visionari.
Helga Marsala
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