Parma, Festival Verdi 2024: “Macbeth”
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024 “MACBETH” Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave, da Shakespeare. Traduzione in francese di Charles Louis, Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont Musica di Giuseppe Verdi Macbeth ERNESTO PETTI Lady Macbeth LIDIA FRIDMAN Banquo MICHELE PERTUSI Macduff LUCIANO GANCI Malcolm DAVID ASTORGA La Comtesse NATALIA GAVRILAN Un Médecin ROCCO CAVALLUZZI Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme EUGENIO MARIA DEGIACOMI Deuxième fantome AGATA PELOSI Troisième fantome ALICE PELLEGRINI Filarmonica Arturo Toscanini Coro del Teatro Regio di Parma Direttore Roberto Abbado Maestro del Coro Martino Faggiani Regia Pierre Audi Scene Michele Taborelli Costumi Robby Duiveman Luci Jean Kalman, Marco Filibeck Coreografie Pim Veulings Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma Parma, 17 ottobre 2024 Il Macbeth in francese è quel che ci vuole per i palati sofisticati del pubblico da Festival: che finiscono tuttavia per ritrovarvi l’opera che già conoscevano, se non fosse quel dettaglio che è tutta in francese. Forse maggiore stupore desterebbe l’originale fiorentino del 1847 che si ascolterà a Busseto nella prossima edizione 2025 del Festival. Sì, perché il Macbeth cui siamo tutti abituati è il restyling del 1865: per Parigi, ma condotto tutto in italiano. Per i nuovi testi dei nuovi brani viene scomodato financo il prestigio intellettuale d’un Maffei (oggi magari lo diremmo Dramaturg), accanto al povero Piave di sempre e, sopra tutti, il povero Verdi: che ci prova a spiegare quel che vuole, ma poi La luce langue se la scrive da solo ché fa prima. E la traduzione? A Verdi, dimostra Giuseppe Martini nel programma di sala, interessava il giusto. L’elemento francese è semmai da ricercare allora nella sensibilità cromatica dell’orchestrazione: ad esempio dei favolosi balletti (pas d’action e non divertissements, prego). Ovvero il gusto tutto nordico e pervicacemente estraneo al romanticismo italiano (e non soltanto musicale) per il fantastico e il soprannaturale. Un carattere che era già del primo Macbeth fiorentino, con quella scena delle apparizioni che nel panorama teatrale italiano è un’autentica follia: sicché torni il Verdi a fare il patriota come si deve e lasci perdere siffatte fantasie. Oltre a lodevolmente spianare tutti i molti e irti ostacoli della lingua cantata, la magnifica direzione di Roberto Abbado sa cogliere, sottolineare, esaltare queste qualità d’oltralpe che appartengono, si diceva, alla più intima natura dell’opera. Nella volatile inconsistenza delle silfidi; nell’inquietante invenzione cromatica di una cornamusa immaginaria, fantastica e remota; nell’allucinata panoramica sulla desolazione che è l’introduzione del coro alla patria (in francese non più oppressa, ma noble-terre): ecco il Verdi visionario del suono. Del resto, l’edizione francese Roberto Abbado l’aveva tenuta a battesimo già nel 2020 in forma di concerto al Parco Ducale, e anche incisa per la Dynamic. Qui la riprende con un vassoio di voci che giustificherebbe una seconda incisione. Protagonista è l’irreprensibile dizione francese del salernitano Ernesto Petti, baritono verdiano per nascita. Chi scrive ricorda la folgorazione nell’Ernani kundiano di qualche anno fa: volume nerboruto e accento virile certificavano l’incontenibile esuberanza di un temperamento autentico. Non si parli di promesse: qui l’Artista è già maturo, padrone d’un canto sfumatissimo e pienamente consapevole. Il timbro si caratterizza per una ruvida, insolita granulosità, che lo rende personalissimo e immediatamente riconoscibile: e assolutamente perfetto per un villain di questa caratura. Lidia Fridman è una Lady dalle tinte cupe, che sfodera insospettabili spessore e consistenza nel registro grave, mantenendo sempre bellissimo, tondo e smaltato il suono. Una Lady senza macchia, forse, ma impeccabile e fascinosa nella sua tetraggine: tanto da rimandare il pensiero, scusate se è troppo, all’arbasiniana “upupa leggendaria”. Terzo protagonista è il coro delle streghe, che fa benissimo, e non da meno è l’arduo coro dei sicari: il merito è sempre del Coro del Teatro Regio e del suo Maestro Martino Faggiani. Michele Pertusi gioca in casa con quella pastosità di struggevole morbidezza che suggerisce al verdiano autoctono sempre nuovi paragoni con la gastronomia locale: una garanzia di valore musicale e piacere d’ascolto. Luciano Ganci dimostra di saper all’occorrenza ammantare di pena lo squillantissimo brillìo della sua voce solare, aperta, schietta. Molto degnamente completano il cast il Malcolm ben timbrato di David Astorga, il Médecin elegantissimo di Rocco Cavalluzzi e la Dama promossa Comtesse dal volume invero impressionante di Natalia Gavrilan. L’allestimento manieratissimo di Pierre Audi compendia il vocabolario più classico, ma anche più usurato, del cosiddetto teatro di regia: è piuttosto chiaro, ma risulta fatale a quell’affare sporco e imperfetto che è il teatro. Nelle scene di Michele Taborelli e nei costumi di Robby Duiveman, in ossequio all’impianto registico, la sobrietà dialoga con la modestia. Forse c’è più Shakespeare (leggi: teatro di parola) che Verdi, ma sicuramente non c’è Parigi. Foto Roberto Ricci