Parthenope, Paolo Sorrentino presenta il film a Roma: «Una donna ...

3 ore ago

È tante cose «Parthenope», la protagonista del nuovo film di Paolo Sorrentino: la metafora della città di cui porta il nome, il simbolo della sua dolorosa bellezza nata dalla spuma del mare, l'incarnazione seducente dello scorrere del tempo, che poi è il leit motiv sotterraneo del racconto, l'altalena bruciante di illusioni e malinconie che costella la vita di ciascuno di noi.

«Parthenope sono io» ha detto il regista parafrasando Flaubert, ma in realtà la ragazza Parthenope che attraversa in un viaggio epico gli anni della gioventù spensierata, e poi dell'età adulta e della maturità consapevole contiene moltitudini, perché vive nelle esperienze di chiunque la guardi. 

«È un film su quanto è difficile, doloroso, ma anche impagabile essere liberi in una città libera e mai giudicante» spiega il regista premio Oscar, presentandolo a Roma con il cast, da Celeste Dalla Porta e Stefania Sandrelli, che interpretano le diverse età del personaggio principale, a Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Silvio Orlando, Peppe Lanzetta, Dario Aita e Daniele Rienzo.

Dopo il concorso al festival di Cannes e le anteprime di mezzanotte, tutte sold out e affollate di giovani, «Parthenope» arriva in sala da dopodomani in cinquecento copie, coprodotto da The Apartment (gruppo Fremantle)-Pathé in associazione con Numero 10, PiperFilm e Saint Laurent by Anthony Vaccarello. In America, attesissimo, uscirà in febbraio con la prestigiosa A24.

Per la prima volta ha messo una donna al centro del racconto, Sorrentino.

«Dopo nove film con protagonisti maschili era ora di cambiare. In più "Parthenope" racconta una storia epica e quella che Joyce chiamava "la selvaggia vitalità dell'epica", intesa come corsa verso la libertà e i sentimenti, mi piaceva pensare che appartenesse più a una donna che a un uomo».

Quanto la rispecchia questa storia?

«Non sono in grado di giudicare il mio cinema. Penso che ognuno è condannato a fare ciò che sente. "Parthenope" era la storia che mi riguardava più da vicino quando l'ho concepita».

E ora?

«Mi resta una grande commozione nei confronti di un racconto apparentemente ambizioso ma in realtà semplice, un film sentimentale sulle varie tappe dell'esistenza. In gioventù non dico che si arrivi alla felicità, ma si possono vivere momenti estatici, nell'età adulta ci si abbandona alla vita, poi, da più grandi, si ha la sensazione che sia la vita a voltarci le spalle e ad abbandonarci».

Da qui la malinconia di Parthenope/Sandrelli per la giovinezza che dura troppo poco

«Ma Parthenope alla fine sospira, e in quel sospiro c'è accettazione, significa: è andata così, ora vediamo che succede. La malinconia è un dato caratteriale, ma val la pena di non assecondarla e di rovesciare la prospettiva. È più stimolante vedere cosa ci aspetta domani che farsi prendere dalla nostalgia, non si torna indietro neppure per prendere la rincorsa, come diceva Andrea Pazienza. Adesso comincio a capire quelle comitive di turisti stranieri avanti con gli anni che se ne vanno in giro tutti contenti, senza pensarci troppo, deve essere liberatorio».

Parthenope diventa antropologa e impara dal suo mentore Silvio Orlando a «vedere» il senso profondo delle cose. Il cinema aiuta a «vedere» la vita?

«A patto che lo faccia in maniera sbilenca. Credo in quel lieve scarto che si chiama fantasia, immaginazione. Il cinema è un meraviglioso caos di libertà, non ha limiti perché ha a che fare con l'arte e può permettersi di traslare la realtà».

Scrivendo e girando un film su una donna, ha imparato qualcosa in più sul femminile?

«Viviamo tempi di grandi contrasti, si parla sempre di ciò che ci divide, uomini e donne, e questo atteggiamento non mi piace. Preferisco concentrarmi sulle cose che ci accomunano. Lo scorrere del tempo ci commuove, ma l'approccio delle donne è più maturo e riflessivo, gli uomini in genere sono generici e superficiali. Detto questo, non credo che un film debba dare risposte, e meno che mai messaggi. Semmai pone domande. Io sono affascinato dal dubbio».

Cosa ha imparato dalle donne della sua vita?

«C'è una linea verticale che parte da mia madre, passa per mia moglie e arriva a mia figlia. Mia mamma mi ha insegnato a stemperare il dolore nell'ironia, era il suo modo per distrarsene un po'. Mia moglie Daniela mi ha tirato fuori da una specie di impasse costante che avevo e Anna, mia figlia, ha un vitalismo che solo a guardarla mi rivitalizza».

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Quanto è cambiata Napoli rispetto ai suoi ricordi?

«È cambiata, naturalmente, oggi è assediata dal turismo, merceologicamente modificata, ma è una città che sa resistere agli urti esterni, ha un'antica energia e radici profonde».

Ha fatto gli auguri a Maura Delpero per la candidatura all'Oscar.

«Sono felice che quest'anno concorra "Vermiglio", un bellissmo film, io ho già fatto due volte l'esperienza, è qualcosa di esaltante ma anche di molto faticoso. C'è un momento per tutto».

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