Gisèle Pelicot, una sentenza che vale per tutte le donne
Il caso
La scelta della donna di tenere il processo a porte aperte ha l’obiettivo di spostare il senso di colpa e di vergogna dalla vittima al colpevoledi Camilla Colombo e Camilla Curcio
19 dicembre 2024
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I primi pensieri di Gisèle Pelicot sono andati ai tre figli, David, Caroline e Florian, ai nipoti «perché loro sono il futuro ed è per loro che ho condotto questa lotta», e «alle mie nuore e a tutte le altre famiglie toccate da questo dramma. Penso alle vittime non riconosciute. Voglio che sappiate che condividiamo la stessa lotta». Il coraggio con cui Gisèle Pelicot ha deciso di affrontare la vita pubblica, dopo la scoperta di quanto fatto dall’ex marito nell’arco di dieci anni – Dominique Pelicot ha somministrato all’ex moglie farmaci in grado di renderla incosciente così da permettere ad almeno una cinquantina di uomini (quelli che le Forze dell’ordine sono stati in grado di identificare) di stuprarla nella propria casa – è stata la cifra distintiva del processo che ha sconvolto l’opinione pubblica francese negli ultimi mesi. E che ieri ha sancito la condanna in primo grado alla pena massima di 20 anni per stupro aggravato all’ex marito. Condannati anche tutti gli altri imputati a pene inferiori che già stanno facendo discutere per la loro lieve entità.
La scelta di Gisèle Pelicot – che ha deciso di conservare il cognome del marito anche dopo il divorzio – di tenere le udienze a porte aperte, di non nascondersi dietro l’anonimato e di consentire la visione in aula delle registrazioni degli stupri subiti è stata accolta con grande sostegno da parte della comunità francese, soprattutto femminile, che l’ha accompagnata in tutte le fasi del processo. Numerose le persone fuori dal tribunale, numerosi gli striscioni in suo sostegno e della battaglia rivoluzionaria di cui ha scelto di farsi corpo e voce: trasferire il senso di colpa e di vergogna dalla vittima al colpevole. Dimostrando di essere un riferimento per tutte le donne nella stessa situazione e ribadendo che anche il padre dei tuoi figli, l’uomo con cui hai dormito tutte le notti, non può arrogarsi la libertà di farti del male, con la giustificazione di essere di “sua proprietà”.
In Italia la decisione di Pelicot di rendere collettiva la sua storia ha richiamato alla memoria il processo di Verona del 1976, un pezzo di storia giudiziaria che ha segnato un prima e un dopo. Un processo per stupro si svolgeva – per la prima volta e grazie alle battaglie dei movimenti femministi – a porte aperte, il personale diventava politico e l’accusa non puntava più il dito contro la vittima, colpevole di «essersi fatta violentare» ma contro l’uomo che aveva abusato di lei. O ancora il ben più famoso processo di Latina del 1979, quando le telecamere della Rai entravano in Aula e consegnavano al pubblico a casa e alle teche la potente arringa di Tina Lagostena Bassi. Ribadendo di non essere «difensore della parte lesa ma accusatore degli imputati», l’avvocatessa condannava una cultura imbevuta a tal punto di sessismo da adulterare, spesso, modus operandi e giudizi degli inquirenti.
Fino ad arrivare ai giorni nostri e alla vicenda di Giulia Cecchettin, che ha riportato al centro del dibattito pubblico la violenza di genere e restituito alle donne il coraggio di scendere in piazza per farsi sentire, anche a nome di chi non ha più voce. Spingendo a una riflessione profonda in due direzioni: da un lato, la necessità di non riconoscere il contrasto alla violenza sulle donne nella «caccia allo straniero» perché, dati alla mano, molti dei femminicidi si consumano tra le mura di casa, per mano del fidanzato, del marito o dell’ex partner che non si arrende alla fine di una storia o all’idea di non poter più esercitare il suo potere sulla compagna. Soggetti insospettabili, agli occhi della società. Dall’altro, l’urgenza di insistere – soprattutto nelle scuole e tra i giovani – sull’educazione al consenso, accompagnando le nuove generazioni in un percorso che, nei comportamenti e nei linguaggi, possa diventare spinta a un cambiamento sociale e culturale quanto mai necessario.
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