Arena di Verona. Riccardo Muti: «Italia, riscopri l'opera lirica»

7 Giu 2024

Riccardo Muti - Ansa

Riccardo Muti - Figure 1
Foto Avvenire.it

Gioachino Rossini e Vincenzo Bellini. Guglielmo Tell e Norma. Naturalmente Giuseppe Verdi. « Il musicista che pianse ed amò per tutti, come disse bene Gabriele D’Annunzio». Il Verdi di Nabucco e Macbeth. Manon Lescaut di Giacomo Puccini «che quest’anno ricordiamo a cento anni dalla morte. L’ho diretto poco, ma mi piacerebbe eseguire La fanciulla del west, una partitura che mi affascina, profonda e modernissima». Ma anche Arrigo Boito con il suo visionario Mefistofele. Riccardo Muti chiude le partiture che ha sul leggio. «Quelle che mi accompagnano da sempre». Prova terminata all’Arena di Verona. Stasera si va in diretta mondovisione su Rai1 dalle 20.35. « Dirigerò sinfonie e cori per ripercorrere la storia dell’opera italiana. Un’ora di musica. Per l’intera prima parte della serata tv. Poi saluto tutti, salgo in macchina e torno a Ravenna. Perché domani mattina sono in prova con i ragazzi dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini. Ci aspetta il Musikverein di Vienna». Agenda piena per il maestro. Piena di musica. Perché la scelta dell’Unesco di dichiarare patrimonio culturale immateriale La pratica del canto lirico in Italia «non è un punto di arrivo, ma un impegno per il futuro. Che ci coinvolge tutti, per tramandare al meglio questo patrimonio che merita di stare nell’olimpo della musica di tutti i tempi». Stasera Muti è il protagonista del Gala in formato tv che il ministero della Cultura, in collaborazione con Anfols, ha voluto per celebrare il riconoscimento dell’Unesco. Apertura della stagione 2024 dell’Arena. Un’orchestra di 160 professori e un coro di 300 voci, formati da musicisti provenienti dalle fondazioni lirico-sinfoniche italiane. Con loro Anna Netrebko e Juan Diego Florez, Eleonora Buratto e Jonas Kaufmann, Aigul Akhmetshina e Francesco Meli, Rosa Feola e Luca Salsi. E Roberto Bolle. Uno spettacolo formato tv – ma per entrare in Arena è richiesto l’abito scuro – affidato alla narrazione dei volti di Rai1 (obbligatori se si vuole andare in diretta sulla prima rete…) Alberto Angela, Cristiana Capotondi e Luca Zingaretti. «Essere sul podio stasera – racconta Muti, che a luglio compirà 83 anni – significa prendersi un impegno per il futuro, quello di dire una volta di più la grandezza dell’opera italiana, che sta tranquillamente a fianco dei tanto celebrati e, giustamente, rispettati Mozart, Wagner e Strauss».

Un impegno, maestro Muti, che lei da sempre ha fatto suo. Non perdendo occasione di difendere l’opera italiana…

«…che per qualcuno, oltreconfine, è solo intrattenimento, un divertente zum pa pa… qualcosa da guardare con sufficienza rispetto alla sacralità di Wagner o Strauss. Dobbiamo ridare la dignità che merita alla nostra opera. Dobbiamo dedicarci alla comprensione profonda di questo patrimonio andando oltre certa superficialità con la quale si esegue il nostro repertorio. E dispiace dirlo, ma spesso sono anche italiani. Eppure l’Italia ha insegnato al mondo a fare l’opera. Cimarosa andò a Vienna, dove arrivarono anche Salieri, Paisiello a San Pietroburgo, Cherubini a Parigi, Spontini a Berlino».

Ora c’è l’Unesco, però. Che dichiara patrimonio culturale immateriale la Pratica del canto lirico in Italia.

«Per uno come me che da sempre si è battuto per il riconoscimento della musica e della cultura italiana nel mondo fa piacere, senza dubbio. Lo voglio leggere come un riconoscimento alla nostra storia, alla storia della musica italiana che ha insegnato tanto a tutto il mondo. Un riconoscimento a quella storia iniziata con la Camerata dei Bardi e Monteverdi, che si inventarono il teatro musicale con parole messe in musica, che continua sino a oggi, con i compositori che scrivono opera contemporanea. E sono tanti. Un arcata che abbraccia cinque secoli, unica al mondo. Ma attenzione, il pronunciamento dell’Unesco non può essere un punto di arrivo».

Cosa c’è da fare ancora?

«Questo riconoscimento ci impone una riflessione profonda. Ci chiede di considerare l’opera nel futuro con una maggiore responsabilità culturale. Dobbiamo uscire dalla logica che all’opera si va per sentire come quel cantante farà quell’acuto. All’opera non si va nemmeno per sentire questo o quell’interprete che, certo, sono importanti, ma noi interpreti dobbiamo essere al servizio della musica, dobbiamo servire il compositore come non si stancava di ripetere Arturo Toscanini. Dobbiamo ristudiare tutto il repertorio, riproporlo con lo stesso coinvolgimento, la stessa cura, la stessa “sacralità” con la quale all’estero trattano gli autori di casa. Non si può abbassare la Pira del Trovatore di mezzo tono se non addirittura di uno intero per lanciare l’acuto strappa applausi. Non si possono tagliare i ballabili delle opere di Rossini o Verdi perché il regista su quella musica non sa cosa fare… un direttore non può accettare questo perché sono pagine fondamentali, tra le vette più altre di questi autori. Penso ai ballabili dei Vespri siciliani di Verdi, Le quattro stagioni, uno dei vertici assoluti della musica del compositore emiliano. Dobbiamo difendere la nostra storia. Ecco la grande responsabilità che abbiamo verso il futuro».

A proposito di futuro, l’orchestra giovanile Luigi Cherubini, che lei ha voluto per aiutare i ragazzi che si diplomano nei nostri conservatori a entrare nel mondo del lavoro, compie vent’anni. Li festeggiate domenica al Ravennafestival e il 12 giugno al Musikverein di Vienna, la “casa” dei Wiener Philharmoniker.

«Torniamo per la seconda volta al Musikverein, dove un mese fa ho diretto la Nona di Beethoven a duecento anni dalla prima esecuzione, un momento di profonda simbiosi musicale, spirituale e umana tra me e i Wiener. La stessa che avverto con i miei ragazzi. In vent’anni di vita sono più di mille i musicisti che sono passati dai leggii della Cherubini, molti di loro oggi sono prime parti di orchestre italiane ed europee. A loro offro qualche nozione di tecnica, certo, ma soprattutto voglio insegnare cosa significa essere un buon professionista in orchestra. Che non è una cosa semplice. Stare per quarant’anni a un leggio significa dare e dare, è faticoso e impegnativo… e richiede un atteggiamento etico e morale per affrontare quella che più che una professione è una missione. Insegno questo, pur sapendo che il nostro paese non è stato ancora generoso come avrebbe dovuto con i nostri musicisti… se penso che la città di Seoul, la città, non la nazione Corea del Sud, ha ben venti orchestre sinfoniche non mi capacito dei tanti teatri chiusi in Italia, delle tante città senza orchestre, senza musica».

Un messaggio alla politica?

«La politica dovrebbe capire che la cultura crea futuro, può dare una professione ai tanti ragazzi che ogni anno escono dai nostri Conservatori e si ritrovano senza un lavoro e sono dunque costretti a emigrare. Insegnare la musica nelle scuole, sin all’infanzia, non è un gioco, ma significa aiutare i ragazzi ad addentrarsi nel mondo dei suoni, creando il pubblico di domani. Anche questo significa valorizzare il nostro patrimonio, quello riconosciuto dall’Unesco».

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