Roby Facchinetti: "Giancarlo Lucariello, un dono di Dio"

13 giorni ago
Roby Facchinetti

Roby Facchinetti racconta i suoi primi ottant'anni di vita (li compie oggi, auguri!) in un'autobiografia da pochi giorni nelle librerie.


I Pooh erano sul punto di chiudere la loro avventura, all’inizio del 1970. Al successo di "Piccola Katy", infatti, non era seguita la definitiva affermazione della band, anzi, quanto avevamo scritto e inciso dopo quel brano non era andato per niente bene. «Memorie», il nostro secondo long playing, un concept album sull’uomo moderno, era forse troppo pretenzioso per dei giovani come noi, e senz’altro non eravamo riusciti a realizzarlo come volevamo. Il brano "Mary Ann", con cui andammo anche al Cantagiro, non sfondò. Dunque, l’entusiasmo della Vedette e del suo patron Armando Sciascia per noi si stava esaurendo e davvero eravamo sul punto di scioglierci.

Fu in quei giorni grigi che arrivò a casa di mamma, alla quale avevo comprato con i primi guadagni un appartamento a Longuelo, la telefonata di tale Giancarlo Lucariello, che aveva recuperato un mio recapito da una segretaria della Vedette e voleva parlarmi. Io, che ai tempi già abitavo a Mozzo con Mirella, ero casualmente in visita da mia madre, che me lo passò.
Giancarlo si presentò come un giovane produttore interno alla CGD/Sugar, una delle massime case discografiche italiane, e mi disse che avrebbe avuto piacere di incontrare noi Pooh per proporci una collaborazione.

A Bergamo con me in quei giorni c’era anche Riccardo, così già il giorno dopo ci recammo insieme a Milano, in Galleria del Corso, presso gli uffici della CGD/Sugar. Erano le tre del pomeriggio, ricordo. Giancarlo ci parlò un po’ di sé, dicendo di aver avuto carta bianca dai suoi capi dopo aver scelto dal repertorio di Louis Armstrong un singolo per l’Italia che era volato in hit parade, e adesso voleva iniziare la sua carriera di produttore puntando sui Pooh. Ci aveva sentiti cantare al Vun Vun di Roma, ed era convinto fossimo potenzialmente fortissimi. Come tocco finale, guardandomi negli occhi, pronunciò la frase rimasta indelebile: «Se accettate di lavorare con me, e mi seguite, diventerete la più importante band italiana nella storia della canzone».

Io e Riccardo accettammo la proposta senza troppe esitazioni, anche perché era un’inattesa ciambella di salvataggio e con il marchio CGD/Sugar, addirittura. Certo eravamo un po’ perplessi, ma anche molto affascinati da questo giovane elegante che dava l’idea di sapere il fatto suo. Anche Valerio e Dodi furono d’accordo con noi, e alla fine dovemmo solo (si fa per dire)
risolvere il contratto con Sciascia, che ci aveva dato tanti soldini di anticipo legandoci alla Vedette sino al 1971. Al prezzo di cambiali (a 70.000 lire l’una, per un valore totale di due milioni di lire), sudore e sangue, però lo facemmo; anzi, lo feci. E quelle cambiali le conservo ancora, perché fu lì che iniziò davvero la storia dei Pooh. Con quella frase che forse Lucariello aveva detto sull’onda dell’entusiasmo, per blandirci, e però si è rivelata obiettivamente una profezia. Grazie a noi Pooh, ovvio, ma soprattutto grazie a quella «chiamata» di Giancarlo Lucariello. A tutto quanto ci ha insegnato, spiegato, fatto scrivere, fatto diventare.

Già qualche giorno dopo Giancarlo venne a casa mia a Mozzo, perché gli avevo detto di avere in serbo delle nuove melodie. E fu lì che per la prima volta mi istruì: mi disse di lasciar perdere certe intuizioni musicali minori, di non fare più le cosiddette «canzonette», insistendo invece su un certo mondo che, lui lo sentiva, avevo dentro.
«Quella è la strada giusta, Roby» disse. «Così diventerai un compositore importante. Lavorando e sviluppando un talento che pochi possiedono.»
Firmammo in quell’occasione anche il precontratto con la CBS, storica etichetta americana la cui emanazione italiana era sotto la CGD/Sugar e per la quale si era deciso che sarebbero usciti i nostri nuovi dischi.

E CBS significava per noi, ancora poco noti, essere in squadra con artisti nostrani del calibro dei Camaleonti e di Gigliola Cinquetti, da tempo in vetta alle hit parade, nonché entrare nel catalogo (stratosferico) di un’etichetta che allora distribuiva in Italia anche Bob Dylan, Mahalia Jackson, Doris Day.

Io seguii da subito i consigli di Lucariello. Insieme facemmo ascoltare quelle mie idee, selezionate e rielaborate, a Franco Crepax, suo referente in Sugar, un discografico che aveva lanciato fra gli altri nientemeno che Gaber, Endrigo, Paoli, Bindi, Tenco, Vanoni e Caselli. Anche a Crepax piacquero (c’era nel pacchetto già quella che sarebbe diventata "Tanta voglia di lei") e così firmammo il contratto definitivo. Iniziò un rapporto che, nel giro di un anno appena, ci avrebbe portato a definire un nostro linguaggio e a sfondare definitivamente nelle classifiche e nei giudizi della critica.

Con Giancarlo nacque d’acchito, anzitutto, un’amicizia profonda, che dura ancora oggi. Per diverso tempo, prima che si trasferisse definitivamente a Milano, nel 1970 – era nato a Napoli e prima viveva a Roma –, veniva spesso a dormire a casa mia e questo ha cementato il nostro rapporto. Giacché ci sentiamo spesso, ancora oggi, ed è uno dei pochissimi che può darmi consigli, può pure «tirarmi le orecchie», e io lo ascolto. Prendo molto sul serio i suoi giudizi su quanto scrivo, penso, progetto.
Giancarlo è persona colta, raffinata, empatica, generosissima.

Un uomo buono e profondo, di grande competenza musicale. Senza la sua visione e i suoi consigli certe cose non le avrei mai scritte, i Pooh non le avrebbero mai incise, non sarebbero mai nati brani come "Parsifal", "Io e te per altri giorni" e molti altri. Lui sapeva e sa come stimolarmi, come prendermi, come spronarmi. Negli anni mi ha aiutato a trovare il mio modo di lavorare, scorgendo nelle mie idee spunti ed esiti ai quali nemmeno avevo pensato.

Giancarlo Lucariello fu dunque un «dono di Dio», per me e per i Pooh, anzitutto perché ci scelse, poi perché ci spinse a creare un linguaggio capace di resistere nel tempo e anche perché ci diede, anzi ci impose, le famose regole dei Pooh. Una lezione di vita, un insegnamento senza il quale non saremmo durati tanto come complesso, e tantomeno saremmo rimasti sempre sulla cresta dell’onda, credibili, autori di produzioni di livello.
Nel 1970 eravamo acerbi e un po’ selvaggi, e non eravamo propriamente una «squadra», come invece Giancarlo pretendeva che fossimo.

Ognuno si vestiva come voleva, faceva quello che voleva, insomma non eravamo coesi, né focalizzati davvero sul bene dei Pooh, atteggiamento che invece Lucariello ci ha indotti in breve a maturare. Senza parlare della visione artistica, completa, originale e definitiva, che Giancarlo ci trasmise e che, dopo, noi – con l’apporto decisivo di Stefano a livello di regole e management – abbiamo saputo portare avanti nei decenni.
Lui ci diceva: «Questo va bene, questo da oggi non lo fate più». Per esempio, a turno noi ci portavamo dietro le fidanzate o le mogli, in sala d’incisione oppure in tour o in televisione. E Giancarlo: «Scusate, ma i vostri padri quando vanno a lavorare si portano vostra mamma?» Fu una frase che rimase scolpita nella nostra testa, e ci ha sempre evitato – fra l’altro – i rischi corsi
dai Beatles...

Un altro importante contributo ce lo ha dato in fatto di stile. Di norma noi ci svegliavamo, prendevamo dal mucchio degli abiti a caso e via, ognuno combinato a modo proprio. Lucariello ci redarguì: «Dovete avere uno stile riconoscibile, che diamine!» E lo stile lo pretese in tutto: nel comportamento con la stampa e in pubblico, nel rapporto con i fan, nel modo di porsi sul palco... e poi la puntualità, la cortesia, i sorrisi.
Sul piano artistico, Giancarlo usava un criterio fortemente democratico. Lui era il produttore, certo, dunque riteneva corretto avere l’ultima parola. Ma ciascuno di noi, su ogni brano, su ogni progetto, aveva il diritto e il dovere di dire la propria: in modo che ogni cosa firmata Pooh fosse frutto di un lavoro collettivo, di un dialogo costruttivo fra le tante persone, e le tante anime, del complesso.

In veste di produttore Giancarlo seppe imporsi per il nostro bene in merito a ciò che volevamo o avremmo voluto incidere: lo fece con noi, ma anche con i discografici, i quali a lungo hanno avuto una forza contrattuale nei confronti degli artisti che noi, solo rendendoci indipendenti nel 1976, siamo riusciti a moderare. Sotto la sua guida noi Pooh non corremmo più i rischi, corsi da tanti colleghi, di svilirsi in operazioni folli, lontane dalla loro personalità e dalla strada artistica intrapresa.

L’esempio sommo fu "Tanta voglia di lei". Giancarlo si impose prima su Valerio, facendogli riscrivere il testo tre volte, poi sulla Sugar, che visto che sembrava non trovassimo una quadra aveva chiesto a Daniele Pace, autore di "Io tu e le rose" o "La tramontana", di aiutarci. In quell’occasione Pace, sull’onda di "My Sweet Lord" con cui George Harrison stava spopolando in tutto il mondo, ci rifilò la canzone parareligiosa "La mia croce è lei".
Lucariello disse chiaro a tutti, in Sugar, che i Pooh quella roba non l’avrebbero incisa, anzi avrebbero inciso solo testi scritti da loro. E impose "Tanta voglia di lei".
Ma non finì lì. Perché dopo Giancarlo pretese che il brano fosse sul lato A, e non sul lato B, del nostro primo 45 giri in CBS, sbraitando ai discografici di Galleria del Corso: «O i Pooh escono con questo testo di Negrini e questo brano, o queste note non usciranno mai più».

Così ci portò a diventare un fenomeno da hit parade. E a essere davvero, finalmente, «i Pooh», quelli di una magnifica storia durata cinquant’anni. Per come eravamo inesperti all’epoca, sicuramente avremmo ceduto: pur di portare avanti l’avventura avremmo inciso "La mia croce è lei" e, forse, l’avventura sarebbe finita lì.

Quando, nel 1975, la separazione fra i Pooh e Lucariello produttore divenne inevitabile per mille motivi, non ultima la nostra crescita e maturazione artistica, io fui quello che soffrì di più. Capivo la necessità per noi di cambiare strada, percepivo il fermento che stava portando la musica nel mondo anche in direzioni a volte differenti da quelle amate da Giancarlo, ma lasciarlo per me fu difficile e doloroso. Anche se poi, in realtà, noi due ci perdemmo di vista solo per pochi mesi: già un paio d’anni dopo era ripreso non solo il rapporto di amicizia, ma pure il suo ruolo di mio mentore e consigliere. E nel giro di qualche anno mi chiamò ancora fra i suoi compositori di riferimento, per pensare brani che lanciassero definitivamente – come avvenne – la carriera di Riccardo Fogli da cantante solista.

Oggi comunque mi sento di poter dire che negli anni «senza fiato» con i Pooh, Lucariello c’è sempre stato, anche quando non c’era più. Perché dopo la sua uscita dalla squadra, in realtà, abbiamo avuto l’intelligenza e la costanza di seguire sempre, in fondo, le sue regole. Oltre che esplorare da più versanti il linguaggio originale che ci aveva spinto a creare.


Il testo qui sopra pubblicato è tratto, per gentile concessione dell'editore, dal libro "Che spettacolo è la vita - La mia storia" di Roby Facchinetti, Sperling & Kupfer, 288 pagine, 19,90 euro.
 

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