Kathleen Hanna è uscita viva dagli anni '90

14 giorni ago

Dire la verità senza chiedere scusa, senza curarsi delle conseguenze. È stato il mantra dei trent’anni di carriera di Kathleen Hanna. L’onestà anche brutale è il suo marchio di fabbrica sia che faccia musica con Bikini Kill, Le Tigre e Julie Ruin, sia che raccolga fondi o racconti della malattia di Lyme da cui è affetta come ha fatto nel documentario del 2013 The Punk Singer.

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Foto Rolling Stone Italia

Ora poi c’è un libro autobiografico che uscirà in lingua inglese il 14 maggio, Rebel Girl: My Life as a Feminist Punk dov’è ancora più coraggiosa, profonda, straziante. Parla di tutto, dalla volta in cui è stata violentata da un vicino di cui si fidava al contraccolpo subito dopo aver fondato il movimento delle rito grrrl e ancora quel che si prova a vedere una frase scritta su un muro a proposito dell’amico Kurt Cobain (“Kurt Smells Like Teen Spirit”) diventare il titolo di una hit globale e la miccia che fa esplodere un intero movimento.

Anche se pensi di sapere tutto, impari un sacco di cose nuove dalla lettura, dai dischi per l’etichetta Kill Rock Stars fatti nei primi anni ’90 alla più recente reunion da sold out. Si parte dall’infanzia nel Maryland, si passa per il periodo trascorso all’Evergreen State College di Olympia e alla nascita di una nuova scena punk femminista fino al matrimonio con Adam Horovitz dei Beastie Boys, e ancora il percorso di adozione e la lotta contro la malattia di Lyme. Leggendo Rebel Girl si ha la sensazione che, scrivendo, Hanna stia cercando d’elaborare ogni singolo ricordo, che cerchi di capire lei per prima perché ha preso certe decisioni e cosa avrebbe potuto fare di diverso, venendo a patti con le scelte che ha fatto.

«Fai un passo indietro quando ti trovi a raccontare i fatti della tua vita», spiega in questa intervista. «Sono rimasta lì a osservarli, a piangere, a esaurirmi, e poi li ho trasformati in storie con un inizio, uno svolgimento, una fine. E me li sono messi alle spalle».

Quand’è che hai deciso di scrivere un’autobiografia? Cinque o sei anni fa. Era un periodo di transizione, prima di ricominciare a suonare con Bikini Kill e Le Tigre. Non sapevo che cosa sarebbe accaduto. L’idea era scrivere di quel che avevo vissuto e di farlo anzitutto per me stessa, per andare avanti. Ne avevo un gran bisogno per ricominciare a immaginare unfuturo. Sì, dovevo mettermi gli anni ’90 alle spalle e mi sentivo pronta finalmente per fare i conti con l’idea di purezza punk. Sentivo il bisogno di confrontarmi con il buono, il brutto e il cattivo, per così dire, di vivere nel Nordovest ed essere una femminista in una rock band.

Hai seguito un ordine cronologico per scrivere? Ho iniziato dalle cose che mi parevano rilevanti. Un momento importante è stato quand’ero in tournée, nel retro del nostro mezzo che è una specie di ibrido tra un furgone e una jeep. Ci stavamo mettendo alle spalle un concerto terribile a cui non s’era presentato praticamente nessuno. Ho messo la mano sul finestrino e l’ho fissata pensando: sono fortunata, sono in tour, al mondo non c’è niente di meglio, è incredibile che abbia trovato una ragione di vita. So che sembra un momento banale, ma per qualche motivo quel giorno quando mi sono messa a scrivere l’ho trovato importante. E poi, ci sono tanti altri momenti tipo mio padre che gira per casa con una pistola.

Scrivere ti ha aiutata a ricordare? Eh sì, perché ho una memoria a breve termine, non riesco nemmeno a ricordare cos’ho mangiato ieri sera a cena, però riesco a ricordare cose accadute una ventina d’anni fa. E non lo sapevo finché non ho iniziato a scrivere. Ho anche capito confrontami coi ricordi degli altri che la memoria può essere ingannevole. Ad esempio, una volta ero su un palco e un ragazzo del pubblico m’ha afferrata per le caviglie e mi ha tirata giù, facendomi cadere di schiena. Quando ho alzato lo sguardo, c’erano tutti questi uomini che mi fissavano in modo minaccioso. Ero sicura che fosse successo a Milano e invece i musicisti della band dicono che è stato in Svezia.

Hai chiesto agli amici di aiutarti a districarti tra i ricordi? Beh, molti non hanno voluto parlarmi.

Ma davvero? Per dire, un ex non mi ha neanche risposto, ma aveva le sue buone ragioni. In ogni caso, nella maggior parte dei casi è stato un dialogo interiore, tipo: ecco cos’è successo, che poi fosse mercoledì o giovedì non ha alcuna importanza. Ho cambiato i nomi di quasi tutte le persone coinvolte, in modo che se nessuno si senta in imbarazzo nel caso abbia dei ricordi falsati. Poi verso la fine del processo di scrittura ho cambiato alcune cose, ho eliminato ad esempio un capitolo che era tutto sbagliato. Ma non ci sono personaggi inventati, sono tutti reali e hanno fatto esattamente le cose che scrivo.

È diverso, no, dallo scrivere canzoni? Collabori molto meno con gli altri, sei più sola. E poi non è che tutti vogliono leggere di te quindi ti senti una specie di egocentrica che tormenta amici e famigliari parlando di continuo di te e della tua vita. Alla fine fortunatamente ho chiuso il libro, temevo che la gente cominciasse ad odiarmi. Non hai nessuno con cui confrontarti, non c’è un’altra Kathleen a cui dire: «Oh mio Dio, riesci a credere che sia successo a noi due?». Ok, meglio che non ci sia un mio clone, anche se mi piacerebbe limonare con lei e capire se bacio bene. Insomma, non è come essere in una band, che fa un concerto, succede qualcosa di strano e dopo se ne parla tutti assieme.

Nel libro ti esponi raccontando le volte in cui sei stata molestata sessualmente. È stato difficile scriverne? Non tanto, perché non è colpa mia, ma delle persone che mi hanno fatto quelle cose. I casini li han fatti loro, non tocca a me ripulire per così dire. Basta, non manterrò più alcun segreto per loro. So bene cos’è l’autocolpevolizzazione. Forse la gente imparerà questo dal libro: puoi essere una persona che tutti considerano “cazzuta”… odio l’espressione “cazzuta”, se la usi puoi metterla tra virgolette ironiche, per favore? Insomma, sai cosa intendo dire. Parlo dell’idea delle donne nel rock: quella è una “cazzuta”, sfonda le porte, bla bla bla. Ma ho 55 anni e fino all’anno scorso mi prendevo la responsabilità di molte delle aggressioni sessuali che ho subito. Era un modo per cercare di mantenere il controllo, per illudermi di avere un qualche potere. Mi dicevo: se mi fossi comportata in modo diverso, questo e quell’altro non sarebbe successo. Era il mio modo per dirmi: ehi, il mondo non è mica un posto orribile in cui può accadere di tutto. Ma indovinate un po’? Il mondo è un posto orribile in cui può accadere di tutto.

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Foto Rolling Stone Italia

Un’altra cosa di cui scrivi è la malattia di Lyme che hai scoperto di avere da ragazza. In The Punk Singer però dicevi di esserne affetta dal 2005. C’era la negazione, il rifiuto. Sono stata una paziente diligente per anni, annotavo su un quaderno tutti gli esami che facevo. Ero tipo la Tracy Flick di Election, ma nel campo della medicina. Andavo alle visite tenendo sotto mano un riassunto scritto perché ho una pessima memoria, mi sentivo malissimo e sapevo che non sarei stata in grado di spiegarlo. E così ho scoperto che in realtà ho avuto dei sintomi fin da bambina. C’è un tipo specifico di malattia di Lyme che si chiama febbre remittente, ecco, è il tipo che ho io. Viene dalla costa orientale, in particolare dal Maryland dove sono cresciuta. Ho vissuto lì fino ai 13 anni. Questa scoperta m’ha fatto sentire un po’ meglio. Mi son detta: non è mai stata curata e quindi non c’è da stupirsi che sia diventata più grave, all’epoca non sapevamo nemmeno dell’esistenza della malattia di Lyme. Ma ho ricevuto le giuste cure e ora sto benone.

Ottimo. Posso andare in tour, wow, chi pensava che sarebbe successo?

Scrivi anche dell’amicizia con Kurt Cobain e di quanto sia stato difficile perderlo e di cosa abbia significato vederlo diventare famoso. Com’è che secondo te i Nirvana sono ancora rilevanti dopo trent’anni? Non puoi fare due passi in qualunque città, in qualunque Paese senza vedere qualcuno con indosso una maglietta dei Nirvana. Non male, eh, per due tizi che venivano da Aberdeen. Mi piace che i ragazzi ascoltino buona musica. La mitologia e le teorie del complotto fanno schifo e non me ne curo. Preferisco concentrarmi sui ragazzi e gli ottantenni con le magliette dei Nirvana, li vedo e sorrido. Figo che una band che faceva le prove in un garage a pochi isolati da casa mia sia ovunque, figo che la gente ami la loro musica. Mi fa inorgoglire per loro.

Dev’essere emozionante vedere che una cosa che ha significato tanto per te continua a essere significativa per le nuove generazioni. Quanto vorrei che Kurt fosse qui per godersela. È la parte difficile di tutta questa faccenda. Avrei voluto che vedesse tutto ciò dopo aver superato l’idea stupida che era diffusa negli anni ’90, quella del sentirsi un venduto. Io ero parte di quel contesto culturale e la cosa mi fa sentire malissimo. Non ho idea se nella sua testa l’avesse superata o meno, ma vorrei che fosse qui, a fare cose, musica o altro non importa, vorrei che fosse qui.

Foto: Lindsay Brice/Getty Images

Nel libro e non solo usi spesso la parola femminismo. Qual è la tua definizione? È cambiata nel corso degli anni? È sempre più o meno la stessa. Ho sempre inteso il femminismo come un movimento contro ogni oppressione e a favore dell’uguaglianza. E questo per tutti, non solo per le donne bianche. L’ho sempre visto connesso alla lotta di classe e alla lotta al razzismo. Lo definisco ancora così, il femminismo è un movimento contro ogni tipo d’oppressione.

Tu sostieni da un bel po’ quello che oggi chiamiamo femminismo intersezionale. Com’è stato vedere quest’argomento entrare nel dibattito pubblico negli ultimi anni?
 Ho due opinioni contrastanti circa l’intersezionalità e i media. Uno: la rappresentazione è importantissima. Due: la rappresentazione non è la legislazione. Voglio dire, possiamo mettere nelle serie tv tutti i giudici neri e donne che vogliamo, ma in realtà la maggior parte non lo è. E finché non diventerà realtà, è importante distinguere le due cose.

Ci sono modi in cui la pura rappresentazione ti ha influenzata? Billie Eilish mi ha spinta a indossare vestiti larghi per la prima volta in vita mia. Davvero, prima mettevo solo cose strette, Billie Eilish mi ha fatto capire che è ok mettersi cose comode. Ho superato i 50, vado in giro con pantaloni e maglie belle ampie e penso: grazie Billie. La rappresentazione di una donna, di un’artista sul palco, la cui musica mi piace parecchio, che indossa abiti larghi e non lo fa sembrare un problema mi ha fatto capire che non dovevo indossare per forza jeans neri attillati tutti i giorni. Quindi sì, grazie a Billie Eilish per aver reso questa cosa cool.

A partire dal 2019 ci sono stati vari tour di reunion delle Bikini Kill e presto ce ne sarà un altro. Com’è riportare in giro quelle canzoni? A 20 anni scrivi della musica, a 50 ti ritrovi a suonarla e la gente ti chiede com’è. Posso dire che sono stata piacevolmente sorpresa dal fatto che pezzi scritti in un’epoca particolare hanno sono arrivati fin qui, sono ancora vivi. Anzi, in certi casi hanno più senso oggi di allora, che pure era un periodo tremendo. E poi ci trovo cose, in quelle canzoni, che non sapevo ci fossero, cose che posso capire meglio alla mia età e che allora non erano al centro dei pezzi. Magari sono solo poche parole, ma le trovo più importanti per me di quanto lo fossero quando avevo 20 anni, se capisci cosa intendo.

Ad esempio? In un pezzo che si chiama Lil Red c’è una parte che dice in buona sostanza: non sei la vittima anche se ti piace pensare di esserlo. Mi pare politicamente rilevante oggi per via dei suprematisti d’estrema destra che posano da povere vittime. Pensano d’essere al centro dei pensieri di tutti e che tutti cerchino di far loro del male. Penso alle giustificazioni che questa gente tira fuori per compiere violenze inenarrabili: hanno perso il lavoro oppure sono stati presi in giro a scuola. Non sapete quante mie amiche hanno subito stupri di gruppo eppure non prendono una cazzo di pistola e vanno in giro a sparare a gente che manco conoscono. Ma andate a fare in culo, non avete scuse.

So che hai una non profit chiamata Tees 4 Togo. È nata per caso. In negozio di abbigliamento c’era un evento per un’organizzazione chiamata Peace Sisters. È gestita da Tina Kampor, un’ex insegnante di Dapaong, in Togo. Siccome la retta era di circa 40 dollari e molti genitori non se la potevano permettere per tutti i figli, ci mandavano solo i maschi. Quando Kampor s’è trasferita negli Stati Uniti e ha trovato lavoro come infermiera a Pasadena, ha iniziato a inviare denaro a casa per pagare l’istruzione d’un paio di ragazze, che poi sono diventate 100 all’anno. Ha quindi fondato l’associazione che ho scoperto entrando in quel negozio e che mi ha commossa. Si tratta di fare cose tipo fornire lampade a energia solare di modo che i bambini possano studiare la sera anche se non hanno la corrente elettrica o dar modo alla famiglia di fare qualcosa dopo il tramonto, foss’anche lavare i piatti, scrivere, leggere, giocare. L’idea è che devolvendo una piccola somma alle ragazze si ha una ricaduta positiva su tutta la comunità.

In quanto a Tees 4 Togo, vedevo sempre magliette contraffatte dei miei gruppi e allora mi son detta: e se la facessi io una maglietta contraffatta? Dalla vendita di un po’ di t-shirt ho ricavato 1000 dollari, a fonte di un loro budget annuale di 5000. Ho chiamato diversi amici, ho chiesto di poter fare delle t-shirt anche per loro e da lì è nato tutto.

La tua idea di attivismo è cambiata col tempo? Diciamo che il fatto di avere avviato un’attività con l’obiettivo di raccogliere fondi per un’organizzazione non profit non significa che improvvisamente per me il capitalismo è diventato un modo sostenibile per raggiungere la giustizia sociale. Ho un sacco di problemi con questa mentalità. Non è lì il futuro dell’attivismo. Continuiamo a contribuire come cittadini, tramite GoFundMe e altro, a cose a cui dovrebbero pensare i governi con le nostre tasse e così facendo non ci occupiamo, per fare un esempio, di genocidio.

Va trovata un’alternativa al sistema bipartitico, va cambiato tutto, radicalmente. Il 20% della popolazione, o meno, tiene in ostaggio l’80%. Tolgono la storia dei neri dalle scuole, e praticamente già non ce n’era. Hanno ribaltato Rod vs Wade, un incubo, anche se era già tale. Ho sposato uno con un sacco di soldi, eppure fatico ad avere le cure di cui ho bisogno. Non riesco neanche a immaginare quel che deve passare una persona che fa due lavori per campare quando le tocca chiamare l’assicurazione pregandola di pagare per un’operazione di cui ha un bisogno disperato. Siamo uno dei Paesi più ricchi al mondo, ma abbiamo una classe media che sopravvive a stento e questo penso sia fatto di proposito: non puoi protestare mentre vai sul luogo del tuo terzo impiego che ti serve per pagare una biopsia.

Che consiglio daresti alla giovane Kathleen? Dare la precedenza all’equilibrio mentale. Le direi: se fai una vita che non piace, cambiala. Non siamo qui sulla Terra per pochissimi anni per fare una vita di merda. Se una cosa ti piace, falla. Divertiti. E fai un sacco di sesso.

E che consiglio daresti a una ragazza che vuol fondare una band oggi? Trovati una persona con cui ti piace stare e chiedile se vuol fare musica con te. Parti da quello che hai, qualunque cosa sia. Se hai un pianoforte, la band sei tu, la tua amica, il piano. Se hai un computer con dentro Garage Band, bene, comincia registrandoti mentre batti le mani e cantaci sopra: ecco che hai una band. Non è necessario che ci siano chitarra, batteria, basso, tastiere o dei beat. Non è nemmeno necessario essere dei geni. Le direi: fai quello che ti viene e se il risultato fa schifo, va bene lo stesso. Sappi che le prime 20 canzoni saranno orrende, ma è normale. Le canzoni di merda servono per arrivare al pezzo canzone che quando lo fai finalmente ti dici: eccola, la mia prima bella canzone.

Da Rolling Stone US.

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