Sharon Stone: «L'America? Un paese adolescente, ingenuo e ...

di Stefania Ulivi, inviata a Torino 

Sharon Stone - Figure 1
Foto Corriere della Sera

La star è a al Torino Film festival per ricevere il premio Stella della Mole e accompagnare il suo primo film da produttrice, «Pronti a morire», del 1995

Non c’è gusto a Hollywood a essere intelligenti. Sharon Stone lo ha imparato a sue spese nel momento di maggior successo, dopo Casino di Martin Scorsese per cui la diva di Basic Instinct ottenne l’unica candidatura agli Oscar. «Dopo quel film, con cui ho realizzato il mio sogno di lavorare con Robert De Niro e Martin Scorsese, di entrare da outsider in quel gruppo così consolidato, non mi sono stati offerti più ruoli interessanti. Ero all’apice della carriera, ma troppo vecchia per gli standard di Hollywood». E anche troppo combattiva («Per Basic Instinct ho guadagnato 500 mila dollari contro i 14 milioni di Michael Douglas. Per Pronti a morire ho dovuto negoziare per superare il tetto di un milione di dollari, mai concesso prima a nessuna donna»), e intraprendente, pronta a un debutto alla regia osteggiato dagli studios. «Mi sono stufata di sprecare tempo e talento per convincere uomini meno e intelligenti di me. Me ne sono andata, ho messo su famiglia, e continuato a fare la produttrice». Consapevole che essere brava e molto sveglia (quoziente intellettivo 154, superiore alla media), oltre che bellissima, non sarebbe bastato a cancellare il vizio di partenza. «Non avevo un pene. Possibile che sia ancora un peso avere una vagina? Attenzione, la domanda è ancora d’attualità». Lucida, franca e ironica come poche star, Stone è arrivata al festival, diretto da Giulio Base, per ritirare nella serata inaugurale al Teatro Regio dal direttore del Museo del cinema Carlo Chatrian, una delle Stelle della mole di Torino 42 e presentare quello che è stato il suo primo film da produttrice, Pronti a morire, con cui nel 1995 contribuì a lanciare Leonardo DiCaprio e Russell Crowe e far uscire dal limbo Sam Raimi. Poco riconoscente, ammette lei, a differenza dell’amico Scorsese. E di Bob De Niro. Con cui avrebbe sognato di lavorare già ai tempi di C’era una volta in America. «Feci diversi provini. Ma ma non ottenni la parte perché avevo troppe tette per il personaggio», ricorda ridendo. Il suo presente è fatto di impegno civile, a favore della ricerca sull’Aids («Quando ho ereditato il ruolo di Elizabeth Taylor nella American Foundation for AIDS Research, pensavo di restare come lei tre anni. Sono passati decenni: è un impegno gravoso, mi ha fatto capire che non possiamo permettere che pregiudizi razziali, sessuali o di altro tipo determinino chi merita aiuto e chi no. Dobbiamo agire con razionalità e umanità»), contro omofobia, razzismo, machismo. «La violenza contro le donne è un'emergenza. Il femminicidio è la principale causa di morte per le donne, per gli uomini è l'infarto. Non basta dire che le donne si aiutino tra loro, lo abbiamo sempre fato. Tocca agli uomini assumersi la responsabilità: devono riconoscere quando  uno di loro, magari un amico, non è una brava persona. Non è più tempo di guardare dall’altra parte».Temi quanto mai attuali in Usa, dopo l’elezione di Trump. «L’Italia ha conosciuto il fascismo, sa cosa vuol dire. Il mio paese è nella sua fase adolescenziale, un adolescente naif e arrogante. Non so cosa succederà, la democrazia è un esperimento. Rispetto il risultato, è il mio modo di essere patriotica». La politica non la tenta. Ha altro da fare: compresa una mostra delle sue opere a Roma, in primavera, all’Ara Pacis. E in novembre a Torino.  «Viviamo in tempi difficili, in un mondo complesso, carico di conflitti e divisioni. Credo che l’arte, in tutte le sue forme, ci possa aiutare a oltrepassare queste barriere. Ha il potere di unire le persone, di toccare il cuore, al di là di idee politiche e pregiudizi».

24 novembre 2024

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Leggi di più
Notizie simili