Yahya Sinwar, 62 anni, è stato ucciso mercoledì sera a Rafah, nella Striscia di Gaza, dall’esercito israeliano - Ansa
La sua dirigenza dell'ufficio politico di Hamas sarebbe durata solo 72 giorni. Yahya – il nome coranico di Giovanni Battista – Sinwar era stato a eletto a capo del movimento islamico il 6 agosto scorso in seguito all'uccisione, una settima prima a Teheran, del suo predecessore Ismail Haniyeh. Una leadership vissuta probabilmente spostandosi da un tunnel a un altro, da cui impartiva ai suoi uomini l'ordine di resistenza ad oltranza. E dai quali ha sempre rifiutato in un anno qualsiasi offerta propposta dai mediatori. Ma la carriera militante di chi viene da tutti considerato come “la mente del 7 ottobre” è stata lunga oltre quattro decenni, metà dei quali passati in detenzione nelle carceri israeliane. Nato 62 anni fa (li avrebbe compiuti il prossimo 29 ottobre) nel campo profughi di Khan Yunis, Sinwar è cresciuto nella rabbia vissuta dalla propria famiglia, espulsa durante la Nakba del 1948 dalla città di Ashkelon. Diplomato in Lingua araba all'Università islamica, si trova nel 1982, a soli 20 anni, alla sua prima esperienza di “detenzione amministrativa” per 4 mesi per «attività sovversive». Alla fine del 1987, subito dopo lo scoppio della prima Intifada palestinese, lo si trova tra i primi membri del neonato Movimento di resistenza islamica (l'acronimo arabo di Hamas, ndr), fondato da membri palestinesi dei Fratelli musulmani sotto la guida dello sceicco Ahmed Yassin. Nel 1985, è condannato ad altri 8 mesi di carcere con l'accusa di costituzione all'interno di Hamas di una sorta di polizia politico-religiosa (chiamata Unità di jihad e predicazione, Majad secondo l'acronimo arabo), con il compito di individuare ed eventualmente eliminare i sospetti collaboratori palestinesi del Mossad, il servizio segreto israeliano. Il suo zelo in quel ruolo gli è valso anche il soprannome di “Macellaio di Khan Yunis”.
Nel 1988 subisce un terzo arresto e una condanna a 4 ergastoli per aver partecipato a un attacco in cui hanno perso la vita due militari israeliani e per aver ordinato l'uccisione di 4 palestinesi accusati di collaborazionismo. Passerà 23 anni in prigionia, tra lettura e apprendimento della lingua ebraica e approfondimento di quella che definiva la « mentalità israeliana». Scriverà anche libri su temi politici, tra cui uno sui partiti israeliani, e ne tradurrà un altro sullo Shin Bet, l'apparato di sicurezza interna israeliano. Nel 2011, figura tra gli oltre mille detenuti palestinesi rilasciati da Israele in cambio del soldato Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas dal 2006. Solo allora, ormai alla soglia dei 50 anni, riesce a sposare una ragazza di 31 anni originaria di Gaza: Samar Abu Zamar Salha. La sua attività politico-militare però non si ferma. Anzi, Sinwar da allora svolge il ruolo di rappresentante delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare del gruppo, all'interno dell'ufficio politico, assicurando in tal modo il coordinamento tra le due anime del movimento. Nel 2015, il suo nome compare sulla lista nera stilata dagli Stati Uniti dei terroristi più ricercati al mondo, accanto a quello di Mohammed Deif, il capo delle Brigate, ritenuto responsabile per vari attacchi suicidi in Israele. Nel 2017, Sinwar viene eletto come “numero uno” di Hamas nella Striscia di Gaza, poi di nuovo nel 2021 per un secondo mandato. Sono gli anni in cui medita la sua spietata vendetta contro Israele.
Insieme a Deif inizia la lunga pianificazione degli attacchi del 7 ottobre con la preparazione di squadre di commando. Deif sarà ucciso il 13 luglio di quest’anno in un raid israeliano nel sud della Striscia di Gaza. Sinwar sopravviverà invece per altri tre mesi, scalando ancora la gerarchia: contro ogni pronostico viene eletto alla successione di Ismail Haniyeh. Sinwar, pensavano in molti, era semmai un “Grande elettore”, ma non un successore. La scelta a sorpresa del «ricercato numero uno» era stata però subito giudicata come «un messaggio forte all’occupante israeliano che Hamas continua sulla via della resistenza». In quel momento infatti, dieci mesi di guerra e l’ostinazione nelle trattative, non avevano minimamente intaccato agli occhi dei vertici del movimento la figura del leader, nonostante il «tributo di sangue e distruzioni» pagato dalla gente della Striscia. Ma ora l’epilogo apre nuove strade.