61mo anniversario disastro del Vajont. Intervento del sindaco di ...
Di seguito, il discorso pronunciato dal sindaco di Longarone Roberto Padrin per commemorare le vittime nel 61mo anniversario del disastro.
“Buongiorno a tutti voi, carissimi sopravvissuti, superstiti e vostri familiari, autorità civili, militari e religiose, signor Prefetto, Sindaci (di Tesero e Caerano San Marco, vicesindaco di Bagni di Lucca….), amici di sempre legati alle nostre comunità da legami di affetto e sostegno.
Rattristato da un ricordo sempre amaro e forte, vi porto il saluto mio personale e dei miei colleghi di Erto e Casso, Vajont e Ponte nelle Alpi. Comuni, i primi due citati, che hanno
subito la violenza dello scempio, e i loro cittadini, superstiti e sopravvissuti, hanno conosciuto la paura più terrificante, il dolore più lancinante, il timore di non riuscire a sopravvivere all’inferno di quella notte; Vajont e Ponte nelle Alpi che hanno raccolto la diaspora degli ertocassani, sfollati, costretti ad abbandonare i luoghi della loro vita, le proprie case, e ogni avere.
Come oggi, allora, era di mercoledì. Era una giornata mite, soleggiata, quasi di fine estate, la serenità della vita quotidiana era presente a Longarone come a Erto e Casso, Codissago. Lo scampanio delle campane al sorgere del sole, al momento del pranzo e la sera. Quelle campane “da Longaron” che suonavano a distesa e dicevano d’essere tanto potenti da
essere udite in tutta la Valle del Piave, fino ai paesi della Valle del Vajont. La vita scorreva felice nella nostra valle. A Longarone era un giorno come tanti altri, anche se ultimamente giungevano notizie da Erto e Casso che i cassani erano stati spostati dal Monte Toc con tutte le loro cose e gli animali. L’ultimo camion aveva raggiunto Casso solo poche ore prima e di lì a poco un “orco” misurabile in 270 milioni di metri cubi di terra e roccia, unita a milioni di metri cubi di acqua in movimento, avrebbero provocato una forza d’urto pari a due volte la potenza della bomba atomica scaricata su Hiroshima.
L’onda assassina ha cambiato la storia dei nostri paesi distruggendoli: 1.910 persone sono state uccise contemporaneamente in pochissimi minuti. Se l’evento catastrofico fosse accaduto nella mattinata, tra i nostri bambini e ragazzi, tra i tre e quindici anni, non si sarebbe salvato nessuno. Ne sono morti quasi 500.
A fronte di tanto dolore i superstiti si sono ritrovati a doverlo elaborare e trasformarlo in forza d’animo per sostenere la rinascita e farsi carico, emotivamente e fisicamente, del ricordo, della memoria. Dobbiamo fare eco al dolore di quanti si sono salvati e incamminati su un percorso di condivisione e forte attaccamento per stare assieme e perorare uniti il dovere di ricordare, fare memoria, non dimenticare.
Ma che cos’è la memoria? Se la storia serve a comprendere come sono andate le cose, la memoria invece serve a fondare, accompagnare le identità e affermare chi siamo, da dove proveniamo. E se oggi siamo qui, in questo luogo, è perché storia e memoria si sono unite nella solidarietà di quanti poche ore dopo quella terribile notte del 9 ottobre 1963 sono arrivati dove non c’era più niente.
La solidarietà di persone anche sconosciute, provate dalla commozione nell’osservare quanto accadeva davanti ai loro occhi e confrontarsi con il loro coraggio per sentirsi veramente utili. Militari, soprattutto, guidati da un comandante vigoroso e capace come pochi ad esercitare il comando dell’emergenza, il Generale Carlo Ciglieri al quale Longarone ha dedicato una via pubblica.
Ecco, sono questi i due elementi su cui oggi, a 61 anni di distanza, costruiamo la nostra identità e grazie ai quali comprendiamo davvero chi siamo e su cosa vogliamo costruire il nostro presente e il nostro futuro: vale a dire memoria e solidarietà.
Ho ancora negli occhi e nel cuore le immagini del 60° anniversario, che proprio sulla memoria e sulla solidarietà ha segnato una simbolica saldatura attorno al dolore mai sopito del Vajont. L’immagine del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che sosta tra le lapidi di questo cimitero, e che dalla diga rivolge un appello che è insieme un messaggio di scuse alle vittime e un monito fermo al “mai più un altro Vajont”.
Un monito che dobbiamo fare nostro, visto che non distante da qui si sta pensando di costruire un’altra diga, nella valle del Vanoi, con dinamiche che non possono non farci urlare di sdegno. Il Vajont deve, e sottolineo deve, insegnare a non commettere
gli stessi errori.
Ho ancora negli occhi e nel cuore la tromba del grande maestro Fresu, qui il 9 ottobre dello scorso anno, che accompagna il coro dei bambini e insieme intonano un canto di dolore e di speranza.
Ho ancora negli occhi e nel cuore i sorrisi finalmente distesi di superstiti e sopravvissuti nell’incontro con Papa Francesco a Roma, che ha definito la comunità longaronese testimone di resurrezione e ondata di speranza. Con l’udienza privata che ci ha regalato il Santo Padre abbiamo chiuso gli eventi sviluppati per il 60° anniversario del disastro e contemporaneamente aperto l’anno della preghiera con l’annuncio del Papa due giorni dopo l’accoglienza della nostra delegazione che preludeva l’apertura del venticinquesimo
Giubileo universale ordinario della storia della Chiesa Cattolica.
Ho, così, negli occhi e nel cuore le centinaia di soccorritori che da anni arrivano a Longarone portando un ricordo di quei giorni terribili dopo il 9 ottobre e insieme anche un pezzettino di tutto il bene che hanno fatto per noi.
Ho nel cuore gli effetti delle celebrazioni del 60°, che hanno portato 150mila persone sui luoghi del Vajont, ad accrescere e coltivare la memoria insieme a noi. Ricordi dello scorso anno che rimarranno indelebili nella memoria e che riporto alla mente oggi. Quest’anno, dopo l’abbraccio di tante persone e figure istituzionali del 60°, abbiamo scelto di celebrare la memoria nell’intimità delle nostre comunità, nella semplicità e nella forza d’animo che le
contraddistingue.
Ho nel cuore il risultato straordinario dell’impegno portato avanti da anni, soprattutto dalla Fondazione Vajont e concretizzato nel decreto della Direzione generale Archivi che qualche mese fa ha stabilito che il “fondo processuale” del Vajont sia conservato a titolo definitivo presso l’Archivio di Stato di Belluno. Un risultato straordinario per il quale dobbiamo ringraziare il nostro presidente della Repubblica e il Governo che hanno compreso quanto fondamentale, per noi, quanto importante sarebbe stata questa decisione. Ora il fascicolo, dopo 15 anni di lavoro, che ha permesso la digitalizzazione di tutti i documenti è consultabile online sulla piattaforma dell’archivio digitale nazionale del MIUR, alla portata di tutti. Una grande soddisfazione per tutti.
Longarone, Erto e Casso, i nostri paesi – noi tutti che siamo qui oggi – sa cos’è successo 61 anni fa. Ma sa anche cos’è stato il dopo. Il valore della macchina dei soccorsi, la forza di volontà, la dignità. Tutti sappiamo cos’ha significato moralmente la ricostruzione. Quale è stata la determinazione della comunità sopravvissuta e superstite. Sappiamo cos’è l’oggi del Vajont e quale monito ci consegna. Osserviamo quotidianamente il “pellegrinaggio” sui
luoghi della tragedia di migliaia di persone che arrivano da tutto il mondo e aggiungono la loro presenza e la loro memoria alla nostra, ormai una massa collettiva.
Da testimoni attenti e rispettosi consegniamo questo carico alla memoria: con i piedi piantati nel ricordo e gli occhi rivolti al futuro, ai nostri giovani affinché anche loro possano sentirsi parte attiva nella storia che ha reso i nostri paesi ricchi della bontà umana sotto l’egida della solidarietà sparsa nel mondo”.