Vajont, il disastro della diga 61 anni fa: la corrente elettrica che salta ...

9 Ott 2024
Vajont

diAlessandro Fulloni

Diga del Vajont: le polemiche sulla «fatalità» e i risarcimenti che arrivarono solo nel Duemila

Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963 : una frana mostruosa, 270 milioni di metri cubi di roccia e terra, precipita dal monte Toc — siamo nel Cadore bellunese — nel bacino alpino formato dalla diga del Vajont, tra le più alte del mondo: nel cadere nell’invaso, la frana solleva un’onda che scavalca la diga e precipita nel fondovalle.

Disastrose, le conseguenze: vengono cancellati cinque paesi, tra cui Longarone. Bilancio terribile 1.917 le vittime. In quei giorni, da quando la Sade — l’impresa proprietaria prima della nazionalizzazione e l’acquisto da parte di Enel — aveva iniziato ad abbassare l’acqua dell’invaso, favorendo, si capì poi, lo scivolamento della montagna, la paura serpeggiava nei paesi. C’erano continui movimenti di materiale e dal Toc — vedi l’infografica — la conformazione dei terreni cambiava a vista d’occhio, gli abeti nei boschi addirittura si piegavano verso valle. Poi, alle 22.39 del 9 ottobre, mentre nei bar di Longarone la gente assisteva in tv alla partita di Coppa Real Madrid-Glasgow, venne meno all’improvviso la corrente elettrica, e iniziò a tirare un vento forte, quasi bagnato.

L’enorme frana di 260 milioni di metri cubi di roccia e fango si era staccata dal Toc e stava precipitando nel bacino sottostante, creando un’onda di 250 metri d’altezza che, in parte, sbattè e risalì sulla montagna opposta, «piallando» la parte bassa di Erto e Casso, in parte si lanciò verso la diga, la scavalcò, e con la forza di 30 milioni di metri cubi d’acqua in viaggio a 80 km orari piombò su Longarone.

Articoli e inchieste scritti a tamburo battente dai cronisti migliori fanno parte non solo della storia del giornalismo italiano, ma hanno «fotografato» un momento indelebile della storia italiana. Così Giampaolo Pansa, 28enne inviato della Stampa, «attacca» — con un incipit memorabile — la sua prima corrispondenza da quei luoghi delle Dolomiti divenuti un inferno nel giro di pochi minuti: «Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga». Alberto Cavallari, sul Corriere della Sera, parla delle vittime e racconta che «non sono sepolti vivi. Sono sepolti morti. Un colonnello batte i piedi sulla ghiaia e dice nel buio: “Stiamo camminando sopra uno strato di almeno 1.500 morti, a dir poco”». Egisto Corradi, appena rientrato dalla Libia e già dirottato al Vajont, sempre sul Corriere descrive «gli uomini e le donne, i vecchi e i bimbi dentro alle case a dormire o a guardare la televisione, o a giocare a carte nei caffè, che non hanno potuto fare nulla per difendersi». Sul Giorno Giorgio Bocca detta ai dimafonisti: «Ecco la valle della sciagura nel crepuscolo del mattino: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare e da dire».

La sciagura era stata sostanzialmente prevista da una cronista dell’Unità, l’agguerrita Tina Merlin, soprannominata — ma in tono spregiativo e sarcastico — la «Cassandra del Vajont». Per dare un’idea del suo lavoro, ecco un puntiglioso vaticinio datato 8 novembre 1960, tre anni prima dell’ecatombe. Scrisse del «lago artificiale di Erto, nel cui bacino le acque sono state immesse da appena un mese» e per questo «ha già cominciato a provocare disastri. Un’enorme frana è precipitata in questi giorni dentro il lago, staccandosi dai terreni sulla sponda sinistra in località Toc, poco più su della grande diga del Vajont. Un appezzamento di bosco e prato della lunghezza di circa 300 metri ha ceduto all’erosione delle acque ed è piombato dentro il lago. Per puro caso non c’è stata qualche tragedia». Quella che invece, innescata sempre da una frana, si verificherà poi. Dopo la sciagura Tina arriva tra le prime ed ecco un altro suo celebre incipit a tamburo battente: «Sono a Ponte nelle Alpi: la strada è bloccata da agenti della polizia, carabinieri, soldati. Non si passa».

Da subito ci si divise sulle cause. C’era chi sosteneva la prevedibilità e chi stava dalla parte della fatalità naturale. Di tutto questo ne parla uno strepitoso saggio — Mai più Vajont, 1963/2023, già in libreria, edito da Fuoriscena — composto firmate rispettivamente da Paolo Di Stefano, inviato speciale del Corriere della Sera, e Riccardo Iacona, conduttore di Presadiretta (Rai 3). L’approfondimento mescola le analisi — un lavoro mai fatto prima — di ciò che raccontarono i grandi inviati del giornalismo italiano e le «tragedie-fotocopia» che si sono susseguite poi: dall’alluvione di Firenze alla frana di Sarno terminando — con altri casi numerosi — con ciò che è accaduto in Romagna nello scorso maggio, dove lo straripamento di torrenti e fiumi ha provocato circa venti morti. E appunto, la fatalità: fatalista fu Dino Buzzati, montanaro di quei luoghi, sconvolto dalla tragedia. L’immagine che pennellò fu questa: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi».

La fine della vicenda giudiziaria del Vajont arrivò molti anni dopo, nel 2000, quando lo Stato - e in quota parte Enel e Montedison - pagarono 77 miliardi di lire per i danni morali e materiali alle popolazioni colpite. Ma l’indagine fu subito in salita. Per dare un’idea della difficoltà: quando il giudice istruttore Mario Fabbri — tignoso, battagliero, risoluto, coraggioso — deve nominare i periti della commissione tecnica che facciano chiarezza sulle cause, non trova disponibile nessun italiano tra geologi e professori, salvo Floriano Calvino (è il fratello di Italo) che per quella scelta verrà penalizzato pesantemente nella carriera. Sono gli esperti francesi e svizzeri che vergano nero su bianco che la frana poteva essere prevista e dunque evitata. Alcuni imputati scappano, la giustizia non li troverà mai. Va segnalata la storia dell’ingegnere Mario Pancini, che pur conoscendo le criticità irrisolte attorno al monte Toc fece consolidare la diga evitando probabilmente una catastrofe maggiore, il giorno prima del via al processo, il 24 novembre 1968, si tolse la vita nella città in Svizzera in cui era riparato.

I superstiti dovettero subire anche l’offesa dei codicilli, come quello sulla «commorienza» — i casi di morte contemporanea dei genitori e di uno dei figli — scovato da Giovanni Leone, presidente del Consiglio nel 1963, poi divenuto avvocato della Sade-Enel nel processo, che permise di non risarcire i parenti di circa 600 vittime. Una tragedia però del tutto annunciata. Ed ecco ancora — sempre nel libro edito da Fuoriscena— un articolo firmato dall’inviato del Corriere Ettore Mo. Riporta le parole incise sulla tomba di famiglia di un certo Luigino che perse moglie e figli «barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana». Ben visibile, sotto c’era scritto: «ECCIDIO PREMEDITATO».

9 ottobre 2024 ( modifica il 9 ottobre 2024 | 12:10)

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