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«Israele ha colpito solo obiettivi militari» in Iran. E spero che l’attacco «segni la fine delle ritorsioni tra i due Paesi». La dichiarazione apparentemente banale di Joe Biden, poche ore dopo l’attacco israeliano in territorio iraniano, è quanto di più vicino il presidente Usa può arrivare a dichiarare una vittoria diplomatica. L’annunciata risposta dello Stato ebraico ai missili di Teheran sulle sue città dunque c’è stata, ma la fitta rete di contatti tesa dietro le quinte dell’Amministrazione Usa ha apparentemente scongiurato sia un’escalation militare nella regione sia incertezze sulle forniture di petrolio che avrebbero portato a aumenti nel prezzo del greggio alla vigilia delle elezioni statunitensi. Almeno per ora.
Nelle ultime tre settimane Biden, che in patria è stato messo in disparte come «troppo anziano e non abbastanza lucido per rimanere al comando», ha spinto gli israeliani a evitare una risposta massiccia che avrebbe infiammato ulteriormente la regione, già dilaniata dalle guerre a Gaza e in Libano.
Lo stesso segretario di Stato Antony Blinken, prima di ripartire per Washington alla fine della sua undicesima missione in Medio Oriente, aveva chiarito a Benjamin Netanyahu la richiesta americana di «non toccare i siti nucleari e petroliferi iraniani», ventilando la minaccia di un blocco delle forniture di armi Usa se il primo ministro avesse ignorato la volontà dell’Amministrazione. Se colpire i pozzi di petrolio avrebbe innescato un effetto a catena sul mercato energetico, infatti, un attacco alle infrastrutture nucleari avrebbe provocato una «risposta ancora più forte» da parte della Repubblica islamica, come aveva assicurato il generale delle Guardie Rivoluzionarie Rassul Sanairad.
Anche il tempismo dell’attacco ha fatto il gioco degli Stati Uniti, offrendo all’Amministrazione Usa maggiori probabilità che gli ultimi dieci giorni di campagna elettorale non coincidano con una fiammata di violenza in Medio Oriente, che a sua volta confermerebbe la teoria di Donald Trump che un presidente democratico alla Casa Bianca porta disordine e guerra. Nei giorni scorsi a frenare l'attacco israeliano era stata la fuga, dal Pentagono, di documenti segreti su tempi, modalità e obiettivi dell’intervento. Se gli Stati Uniti non sono stati coinvolti a livello militare nell’attacco, dunque, come ha precisato ieri il Pentagono, Washington ha avuto un ruolo di primo piano nella sua gestione e tempismo, ed era stata informata in anticipo dei suoi dettagli dallo Stato ebraico. «I funzionari della Casa Bianca e del Pentagono si sono consultati con Israele negli ultimi giorni sulla portata e sul tipo di obiettivi da colpire», ha dichiarato anonimamente un funzionario americano al New York Times precisando che «Israele ha assicurato che la risposta all’attacco missilistico iraniano del primo ottobre è completa». Interessante che il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, Sean Savett, abbia definito l’attacco «un esercizio di autodifesa»: affermazione in linea con l’ostentata posizione iraniana che l’intervento non ha turbato le sue attività produttive.
Washington ha confermato, anonimamente, di avere «molti canali di comunicazione aperti, diretti e indiretti, con l’Iran, che conosce la nostra posizione su molteplici questioni», compresa la speranza che «questo scambio diretto dovrebbe essere la fine».
La rete intessuta da Biden sembra aver coinvolto anche l’Arabia Saudita, che ieri ha condannato con insolita moderazione l'attacco israeliano. La nota saudita si sofferma infatti sulla violazione della «sovranità nazionale» di un Paese, tacendo il nome del colpevole e rivolgendo un invito a «tutte le parti coinvolte» a esercitare moderazione. Riad sembra voler continuare a lasciare aperta la possibilità di una normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico, anche questa sotto l’egida americana.