Calcio, «Lecce società modello»: Super sfida col Sassuolo

L’ex bomber Palmieri: «In giallorosso anni favolosi, tutto girava a meraviglia»

Raffaele Fiorella

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Raffaele Fiorella

24 Febbraio 2023

LECCE - Domani riparte la Serie A dopo la tre giorni dedicata alle coppe europee. Alle 18, in campo ad Empoli, il Napoli, lanciato verso la conquista del suo terzo scudetto. Secondo anticipo del sabato, alle 20:45, Lecce-Sassuolo. Partita speciale per Francesco Palmieri, ex attaccante della formazione giallorossa, ora dirigente del club emiliano: nei giorni scorsi ha ricevuto a Coverciano il premio «Mino Favini», quale miglior responsabile del settore giovanile per la stagione 2021-22. Un riconoscimento di grande prestigio, dedicato alla memoria dello storico talent scout del Como e dell’Atalanta.
Palmieri, poche ore e il Via del Mare si riempirà per assistere ad una sfida con in palio punti pesanti per la salvezza.
«Sarà una bella gara, tutta da vivere e seguire. Il pubblico sicuramente non si annoierà».
Il Lecce ha tre punti in più del Sassuolo, il club salentino sta vivendo una stagione magica.
«Tutta la società, con il presidente Sticchi Damiani in testa, sta facendo un gran lavoro. Corvino di certo non lo scopro io: sono legato a lui da grande affetto, ha tanta esperienza, è un maestro nel suo campo. Il Lecce ha una sua strategia chiara, la sta portando avanti già da un po’, con impegno, serietà e coerenza. E i risultati si vedono, parlano chiaro».
Tre anni in giallorosso, dal ’95 al ’98. Quasi 40 gol realizzati, fra campionati e coppe. La doppia promozione consecutiva dalla C1 alla Serie A. La coppia formidabile con Mino Francioso. Palmieri è stato tra gli alfieri e capitano della formazione che fece sognare Lecce nella seconda metà degli anni Novanta.
«Periodo indimenticabile. Tutto funzionava alla perfezione. Andavamo a tutto gas, ogni componente del club girava a meraviglia. La società era forte, c’era la proprietà solida della famiglia Semeraro. La squadra idem, composta da tanti giocatori di spessore. E al timone c’era un grande allenatore, Ventura. Possesso di palla, costruzione dell’azione dal basso, come si gioca adesso. Eravamo avanti di quasi trent’anni rispetto alle evoluzioni di questi ultimi tempi. Con Francioso ci siamo ritrovati al Sassuolo, è nello staff di Emiliano Bigica che allena la nostra Primavera. È bello lavorare ancora insieme».
Che ricordi ha, sul piano affettivo, dell’esperienza in Salento?
«Anni stupendi, in una terra meravigliosa. Sono stato un idolo dei tifosi giallorossi e questo mi ha riempito di gioia. Un ambiente che mi ha amato, a cui resto legato perché ho tanti amici in Salento, e verso cui porto grande rispetto. Una maglia che ho indossato con orgoglio, anni in cui mi sono sempre impegnato al massimo, come ho fatto ovunque nel mio percorso da calciatore. Carriera che ho avuto l’onore e il piacere di chiudere nella squadra della mia città, Bari, dove poi ho avuto anche l’opportunità di iniziare il mio cammino di dirigente, come collaboratore del direttore sportivo, per poi diventare responsabile del settore giovanile, a Parma e infine al Sassuolo, dove lavoro da otto anni».
Il premio «Favini» è un altro bel traguardo, di cui andare fieri.
«Senza dubbio. Motivo di grande soddisfazione e orgoglio, perché a votarmi sono stati i miei colleghi e perché è intitolato alla memoria di un’istituzione del calcio giovanile italiano. Ci vuole grande passione e sacrificio per occuparsi dei vivai. Si è impegnati tutto il giorno. C’è un grande lavoro dietro, che pochi conoscono e si nota poco. Bisogna seguire e formare i ragazzi non solo sul campo, ma a 360 gradi, nella loro crescita anche di vita. Io ho la fortuna di farlo in un club come il Sassuolo dove c’è una proprietà solida, competenze, grande armonia, si lavora seriamente. Un premio che dedico ai miei figli, al mio staff e al Sassuolo. Sono contento di poter rappresentare al meglio Bari e la Puglia, come stanno facendo anche, per fare qualche esempio, Bigica, Michele Franco al Monza, Angelo Carbone al Milan e come ha fatto Antonio Cassano, che in campo è stato un fuoriclasse assoluto».
Quale è lo stato di salute, in Italia, del calcio giovanile?
«C’è molto lavoro da fare. Tante società parlano di vivaio ma poche, con i fatti, mettono in pratica ciò che dicono di voler realizzare. Bisogna fare investimenti nelle strutture e negli staff, dare continuità al lavoro. Dopo la vittoria degli Europei sembrava che andasse tutto bene, poi la mancata qualificazione ai Mondiali ha riaperto il dibattito. Il problema è che in tanti parlano di vivai, ma a sproposito, senza conoscere nemmeno le differenze tra le Under 17 e Under 15. Tutte le società, perlomeno quelle di A e B, dovrebbero avere centri dedicati esclusivamente al settore giovanile. E poi dev’esserci un cambio di mentalità. In Italia a 40 anni sei considerato ancora giovane, io vado per i 56 e mi dicono che sono giovane. Non è possibile pensarla in questo modo. Bisogna dare spazio e fiducia a chi davvero è giovane, in tutti i ruoli: dirigenti, tecnici, calciatori. I ragazzi devono poter fare esperienza, anche sbagliare. Perché gli errori aiutano a crescere».

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