In Rebel Moon - Parte 2 Zack Snyder trova finalmente un senso

13 giorni ago
Rebel Moon

Con grande coerenza la seconda parte di Rebel Moon continua a essere una fusione tra Guerre stellari - Episodio 4 (il primo in assoluto a essere uscito) e I sette samurai, ovvero la storia di un gruppo di guerrieri ormai senza padrone che si uniscono per difendere un pianeta di contadini dall’impero che, molto più armato, vuole sottrargli il raccolto. Se la prima parte di questo che in teoria sarebbe un unico lungo film diviso in due, era abbastanza noiosa e soffriva la sua natura derivativa, cioè ricordava tutti i suoi modelli senza catturarne mai il fascino, in questa seconda Snyder trova una quadra, bilancia tutti i pesi e dedicandosi solo e unicamente alla preparazione ed esecuzione di un’unica battaglia (che poi in fondo è un po’ quel che era il suo 300) consegna un film finalmente compatto e godibile.

Una volta tanto, va detto, la divisione in due di quello che è un unico lungo film ha un senso. Benché siano estremamente collegati, Rebel Moon - Parte 1 e Rebel Moon - Parte 2 sono stilisticamente diversi (qui spuntano mille lens flare assenti in precedenza, ci sono più flashback, meno questioni sentimentali, scenografie diverse…), hanno un ritmo differente e in fondo si potrebbe guardare anche solo questo secondo film, senza annoiarsi con il primo, tanto comunque non si capirebbe molto dei riferimenti. Già all’inizio, quando la voce fuoricampo di Anthony Hopkins (che doppia un robot) rovescia sullo spettatore una specie di antefatto pieno di nomi di luoghi e persone, tutti insieme, tutti uno in fila all’altro, senza che sia possibile anche solo vagamente raccapezzarsi, porta anche il più volenteroso a gettare la spugna: non importa chi ha fatto cosa a chi, quando e dove, importa solo che pochi male addestrati ma motivati sono pronti a combattere i molti.

A questo film del resto interessano solo due cose: il racconto d’azione e ribellione, e il world building, cioè la creazione di un universo grandissimo pieno di implicazioni, altri mondi e altre potenziali storie. Ed essendo Zack Snyder il regista di un film sulla Justice League da 4 ore in bianco e nero, non fa nulla normalmente. Anche questo universo narrativo originale, cioè creato da Snyder stesso con Kurt Johnstad e Shay Hatten, è un atto di world building estremo, esagerato, gigante. La notte prima della battaglia ognuno dei sei guerriglieri racconta l’antefatto che lo ha reso un nemico dell’impero. E in questi flashback si vedono altri mondi, ognuno con suoi abiti completamente diversi dagli altri, ognuno legato a un genere cinematografico diverso, con architetture diverse e mille storie che potrebbero essere raccontate o portate avanti separatamente da questa. Dà un assaggio di un franchise abbozzando altri film in un atto di creatività (sempre derivativa sia chiaro) bulimica.

Se qualcosa Rebel Moon - Parte 2 esprime è quindi il desiderio di fare un grande franchise da questo universo di fantascienza (che poi è lo stesso di Army Of The Dead, altro film di Snyder ma ambientato nel presente), che attinge a tutto quello che il cinema ha fatto. I suoi riferimenti già dettagliati sono evidenti e qui si aggiungono anche le divise militari e alcune soluzioni di scenografia dal Dune di David Lynch, senza contare che l’unico robot coinvolto a un certo punto si comporterà esattamente come il Superman di Man Of Steel (sempre di Zack Snyder) mantello incluso. È un mondo originale perché non adatta niente, ma non è originale nel senso di unico, è un pasticcio tarantiniano con meno edonismo citazionista, meno piacere nel far vedere di sapere e più senso del patchwork.

Questo è il film di Snyder che ha mangiato altri film, che contiene dentro il cinema degli ultimi 50 anni e proprio con esso, con delle spade di fuoco che praticamente sono spade laser (per esempio), vuole raccontare una storia nuova. O quasi. E ci riesce. Rebel Moon - Parte 2 contiene alcuni dei più classici esempi della grande capacità di Snyder di raccontare per immagini, di vivere di sequenze senza dialoghi e di trasformare i personaggi in pura espressione di valori cardinali. L’eroismo, ovviamente, ma anche la fedeltà, la rabbia, l’arroganza o la tenerezza. Non c’è niente in tutte le due ore in cui Sofia Boutella (mai davvero incisiva), Djimon Hounsou (invece sempre incrollabile come una montagna) e i loro soci organizzano e poi combattono un impero, che non sia stilizzato, mirato a esprimere un’epica a tinte forti che è reale. Anche le ragazze sensibili non possono che non essere bionde con gli occhi azzurri e i cattivi non possono che essere sfregiati.

A dominare il film non è una vera logica ma una serie di pretesti per creare un’epica, e se per riuscirci Zack Snyder deve inserire in un’astronave del futuro ipertecnologica un cannone potentissimo che si manovra con una manovella meccanica, come fossimo nella seconda guerra mondiale, e ha le lenti e non uno schermo, insomma che è tutto manuale e analogico non si sa perché (in realtà solo perché gli serve di rallentare la preparazione al colpo per creare tensione), beh, non esita un secondo a farlo. Non è la coerenza che gli interessa ma la possibilità di creare scene. Non è un cinema per tutti, perché legittimamente molti preferiscono una sceneggiatura a prova di bomba, ma è sicuramente un cinema che si fa perdonare queste leggerezze con un’enfasi visiva che davvero, oggi, non ha nessun altro.

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